Un Woyzeck “metallico”

Opera frammentaria – con le sue venti folgoranti scene -, Woyzeck di Georg Büchner (1813-1837) nasce da un fatto di cronaca e descrive l’inettitudine a vivere di un uomo semplice trasformato in zimbello da un mondo sopraffattorio. La storia del povero soldato-barbiere vessato dal capitano isterico, ridotto a cavia da un medico pazzo, tradito dalla sua donna col prestante tamburmaggiore, è una tragedia che precipita, senza dar respiro, fino all’uccisione della moglie – sua unica ragione di vita – e al suicidio del protagonista. E si prova un moto di pietà verso questo escluso da ogni rispetto e da ogni speranza. Testo visionario e incompiuto – adatto perciò a molte varianti -, Woyzeck rappresenta una pietra miliare di tanto teatro moderno, usato anche, nelle diverse letture, come manifesto generazionale. Congeniale quindi alle sperimentazioni di Giorgio Barberio Corsetti. Regista e adattatore egli vede Woyzeck come “simbolo dell’impossibilità di appropriarsi dei propri spazi vitali”. E lo colloca in mezzo a un’installazione d’arte dove la natura dell’uomo si scontra col freddo della materia. Il suo Woyzeck si muove in uno spazio vuoto, tra lastre di ferro, oggetti, macchine metalliche – vere e proprie sculture che, irrompendo, rivelano un prato di fiori o altalene di tortura -, e pietre che oscillano. Forse per dire un mondo di sentimenti e di passioni sottoposte alla durezza della vita: quella che attanaglia l’ingenuo soldato. Mentre, tra folate di vento, acqua, videoproiezioni in bianco e nero dei protagonisti, ritorna più volte la presenza di un coltello che cade dall’alto per piantarsi sul palcoscenico: presagio del gesto finale. Allo stile riconoscibilissimo di Corsetti si aggiunge una maturità degli interpreti dalla forte presenza scenica. Specialmente quella del protagonista Filippo Timi, di febbricitante naturalezza; ma anche di Giovanni Franzoni, Ruggero Cara, Lucia Mascino. Danza: l’ultimo giorno di berg Woyzeck è entrato nel teatro musicale grazie ad Alban Berg. Lo ritroviamo, insieme a frammenti di altre opere, nell’originale omaggio che il Teatro dell’Opera capitolino ha reso al compositore viennese, con uno spettacolo di teatrodanza firmato da Beppe Menegatti: Wozzeck, Lulu, la morte ed altri.Viene rievocato l’ultimo giorno di vita di Berg in un letto d’ospedale aspettando una trasfusione di sangue (morì per una puntura d’ape infetta, a cinquant’anni). Al capezzale della memoria accorrono pensieri e personaggi da lui amati: la moglie, la sorella, una donna segreta, Schönberg, Webern… Insieme a loro i ricordi fra le due guerre e la messa al bando, da parte del nazismo, della sua musica. Coniugando canto musica parola e danza, dentro una scena tutta bianca dominata da un letto continuamente spostato e da siparietti, manifesti, foto d’epoca, lo spettacolo, visivamente, è ricco di riferimenti e suggestioni della Vienna culturale e politica che ci immergono in un quadro “espressionista”. Alla voce intensa di Maximilian Nisi – la coscienza con cui animosamente dialoga Berg – si aggiunge la presenza di Carla Fracci nelle vesti della Morte e del ballerino Mario Marozzi. C’è molta danza, anche se la coreografia di Luca Veggetti non ha guizzi particolari. Non convince Luc Bouy – nei panni di Berg – soprattutto quando recita (passi pure la mimica e la gestualità). Anche Tosca, voce bellissima impegnata a cantare, reinterpretando nel suo stile leggero, lieder e brani pure di Puccini, non si capisce cosa c’entri. Al di là di tutto questo, lo spettacolo ha il merito di restituirci il travaglio interiore di un grande del Novecento. Attraverso l’ispirazione di Menegatti.

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