Un viaggio particolare

Dal mattino alla sera, gli imprevisti nella giornata di un missionario.
Un viaggio particolare

Si sa che lungo il tragitto Dakar-Bissau può capitare di tutto: circa 650 chilometri attraverso il Senegal, il Gambia, ancora il Senegal, e finalmente la Guinea Bissau.

E in effetti, sentite questa. Una mattina lascio Dakar, verso le 4,30, diretto alla mia missione di N’Dame, in Guinea Bissau. Sono in compagnia di due giovani religiosi oblati senegalesi, Etienne e Jean-Marie. Viaggio con la loro macchina, in direzione di Temento, la loro missione. È là che, all’andata, ho lasciato il mio vecchio veicolo.

Impieghiamo quattro ore e mezzo per raggiungere la frontiera con il Gambia, dove sbrighiamo in fretta anche le pratiche di dogana, con mia soddisfazione. Quando arriviamo però al traghetto, perdiamo tutto il tempo guadagnato, a causa di un camion che non riesce a imbarcarsi.

Arrivati finalmente di là, ci sono da fare altri venti chilometri in terra battuta per uscire dal Gambia e rientrare nel Senegal. Alla frontiera, ultimo controllo della polizia del Gambia, questa volta però più minuzioso: luci, frecce, patente e… clacson. Sono io alla guida.

«Il clacson funziona?», fa il poliziotto. «Come no!» (ha sempre funzionato!). E invece niente, pur continuando a pigiare. Anche con l’aiuto di Etienne non ne esce nessun suono. Mi rivolgo al poliziotto: «Ti assicuro, funzionava fino a poco fa!».

L’altro mi guarda con malcelata soddisfazione. Sembra voler dire: a chi la vuoi far credere? «Può sembrar strano – ripeto –, ma solo ora, qui davanti a lei, non funziona». Inutile insistere. Mi invita ad accostare a lato e a seguirlo sotto una tettoia di frasche.

È un’infrazione grave, dichiara; una multa mi costerebbe molto cara, come tempo (dovremmo tornare indietro, per quella pista piena di buche, fino alla centrale della polizia) e come denaro. Però ci sarebbe un’altra soluzione: mettermi d’accordo con lui. Facendo finta di non capire, provo a dire: «Ti chiedo semplicemente di lasciarci andare. Appena arriveremo da un meccanico, metteremo a posto il clacson».

Niente da fare. Certo, sarebbe molto più semplice dargli qualcosa e partire, tanto più che siamo in ritardo, ma mi frena il ricordo di un cartello notato lungo la strada polverosa: Say no to bribery (di’ no alla corruzione).

Visto che non ho intenzione di cedere, il poliziotto mi dice di aspettare il capo. Costui arriva dopo un po’: è un uomo sulla cinquantina, dall’aspetto bonario. «Here is the boss» (ecco il capo), esclama.

«Ho un problema – gli sorrido –: il clacson non funziona…». (Inutile ripetergli tutta la storia, che prima funzionava ecc.). «Ti chiedo semplicemente di lasciarci partire. Lo aggiusteremo appena arriveremo dal meccanico».

«Sì, però se ci dai qualcosa…».

«Non sono abituato a fare queste cose, capo. Lavoro come missionario in Guinea, e non sono là per fare commercio, ma per aiutare. Perché non aiutate anche voi?».

I due si guardano in faccia. Dopo un cenno di affermazione, lui risponde: «Va bene, potete andare, buon viaggio». «Grazie capo!». 

 

Entriamo in Senegal, e dopo un paio di ore siamo a Zinguenchor, dove troviamo un meccanico. La tromba del clacson si è staccata ed è necessario saldarla. Così passa altro tempo. Arriviamo a Temento alle 7 di sera.

Per arrivare a N’Dame mancano 115 chilometri, ma bisogna prendere una pista e passare attraverso la frontiera, in una zona di savana e di foresta. Inoltre in Guinea ci serviremo di un altro traghetto che si ferma alle 19.

Pensando però che al di là della frontiera c’è una missione (Ingorè), potrei arrivare fino là, e ripartire la mattina seguente in tempo per prendere il primo traghetto. I miei compagni di viaggio sono d’accordo; così, dopo averli salutati, prendo la vecchia macchina che ho lasciato all’andata e mi avvio verso il mato (la foresta).

In Africa la notte arriva in pochi minuti; alle 19,15 ci si vede ancora, ma alle 19,30 è già buio. Così, dopo pochi chilometri devo accendere le luci. Mi ricordo però la pista per averla fatta altre volte. A un certo punto incontro un gruppo di ragazzi: insistono per avere un passaggio. Li carico a bordo, dal momento che sembrano andare nella mia stessa direzione. Ricordo che a un certo punto, dopo una chiesetta, devo prendere la prima a sinistra. Tutto bene. So anche che dovrei prendere la pista seguente pure a sinistra, ma arrivato là quelli mi gridano che non è la strada giusta.

«Sarà che non mi ricordo bene?», mi dico. E allora avanti. Ma dopo poche centinaia di metri non mi ritrovo più. Arriviamo in un villaggio (nuovo per me), e mi dicono: «Noi ci fermiamo qui». «Ma io devo andare a Ingoré. È questa la strada?». «Ah, no. Ma se torni un po’ più indietro ne vedrai una a destra: prendi quella e ti ritroverai».

Faccio retromarcia, ritorno e prendo la strada indicata. Ma più vado avanti, più mi trovo confuso. Non so più dove sono. Ci sono altre piste, in tutte le direzioni. Quale sarà quella giusta? Sto perdendo la pazienza (con me) e mi dico: «Ecco che cosa ci si guadagna ad aiutare gli altri…».

 

È notte fonda. Il forte canto dei grilli e dei vari insetti che altre volte ho seguito con piacere, non mi dice nulla. Comincio a preoccuparmi. Tornare a Temento? Ma rischierei di non trovare nemmeno quella strada. A un certo punto mi dico: «Sono certo che ne uscirò, perché so per chi sto lavorando». E riprendo sicurezza.

Dopo un po’ arrivo a un nuovo villaggio. Escono all’inizio i più coraggiosi (i giovanotti) e via via donne, anziani e bambini, attratti dal rumore del motore e dalla luce dei fari. Sono tutti intorno alla macchina. Chiedo anche a loro: «Devo andare a Ingoré, è questa la strada?». Uno mi dice: «Dovrei andarci anch’io, ma solo domani. Se continui diritto incontrerai un altro villaggio. Lì ti spiegheranno».

E allora avanti ancora. Dopo un po’ arrivo a un incrocio di piste che mi sembra familiare. In effetti ho ritrovato la strada che conosco. E allora non mi preoccupo più. Arrivo al villaggio, ma non è più necessario chiedere. E continuo il viaggio con animo risollevato.

Verso le 21 arrivo a Ingoré, dalle suore: «Capisco che non è l’ora per arrivare qui, ma…». «Qui va bene venire in tutte le ore!», mi dicono. E mi preparano subito un posto a tavola.
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