un vero uomo del dialogo
Per dire qualcosa su don Silvano – come familiarmente tutti lo chiamavano -, e farlo all’altezza della sua capacità letteraria, ci vorrebbe qualcuno dei suoi grandi amici scrittori, come il giornalista Gino Lubich o il letterato Italo Alighiero Chiusano. Si parlerà ancora di lui, ma per il momento ecco solo alcuni spunti a caldo, pochi giorni dopo la sua partenza dalla scena di questo mondo. Le radici Colpiva la freschezza con cui a tutti raccontava quanto era stato decisivo per lui l’incontro col carisma dell’unità. Diceva: Ero sacerdote dal 1950, quando nel 1954 ho conosciuto l’Ideale dell’unità incontrando a Torino una delle prime focolarine, Angelella Ronchetti. In mezz’ora quella giovane donna è riuscita a sconvolgere tutte le mie certezze clericali. Non sono riuscito a dormire per tre notti di seguito, e poi, per non impazzire, ho pensato bene di andare a rendermi conto di che cos’era questa nuova vita. Sono entrato nella casa dove Angelella abitava, e ho trovato un’altra delle prime compagne di Chiara Lubich, Doriana Zamboni. È stata un’ora di luce immensa da farmi veramente rinascere. Naturalmente da allora ogni momento libero dal lavoro andavo in quel focolare. Lavorava allora nella Città dei ragazzi di Torino, fra giovani abbandonati o delinquenti. Attraversava una profonda crisi. Per quat tro anni – raccontava – mi pareva, essendo diventato sacerdote, di essere arrivato al culmine. Poi sono cominciati i dubbi, perché vedevo che la teologia studiata in seminario serviva ben poco per il mio ministero. Sono andato in crisi al punto che, per onestà, avevo deciso di smettere il sacerdozio. A contatto col focolare prende coscienza della realtà di Gesù in mezzo che si sperimenta là dove l’amore si fa reciproco. È un’esperienza così radicale da fargli dire con il linguaggio schietto che gli era caratteristico: Io lavoro in mezzo ai delinquenti. Sono anch’io un mezzo delinquente e forse andrò all’inferno. Ma anche se andassi là, questa esperienza me la porterò dietro. Lo disse a Vittorio Sabbiane, avvocato, uno dei primi focolarini di Torino. Altra esperienza fondamentale, la partecipazione all’incontro estivo dei Focolari, la Mariapoli del 1955, sulle Dolomiti. Diceva: Lì si componeva un popolo variegato che, convenuto unicamente per amare, faceva sperimentare la Chiesa come icona della Trinità. Padre di sacerdoti Dal 1963, col consenso dei vescovi della sua diocesi di Torino, si trasferì al centro del movimento nei Castelli Romani, per essere a servizio di tutti i sacerdoti diocesani del mondo ispirati dalla spiritualità dell’unità. Furono anni di grande sviluppo del movimento, compresa la branca sacerdotale, che don Silvano seguì con cura e fedeltà impressionanti, con lettere, viaggi e convegni. Servirebbe un libro per raccontare quanto fece. Nel 1966 Chiara Lubich e don Pasquale Foresi fondarono a Grottaferrata (poi stabilitasi a Frascati e quindi a Loppiano) la cosiddetta Scuola sacerdotale. Essa avrebbe offerto a migliaia di sacerdoti e seminaristi diocesani la possibilità di fare un’esperienza approfondita di vita d’unità, aiutandoli così a realizzare con i loro vescovi, i loro presbiteri e nelle comunità parrocchiali a loro affidate la Chiesa-comunione del Vaticano II. Sempre nel 1966 Chiara diede vita pure al Movimento parrocchiale, di cui don Silvano accompagnò i primi passi: si videro così rivitalizzate tanti gruppi parrocchiali nel mondo, con il sapore delle prime comunità cristiane. Nel 1968, poi, in un momento di grande crisi dei seminari, Chiara confidò a don Silvano il suo desiderio di venire in aiuto alla Chiesa, prendendosi cura anche di giovani seminaristi. Nacque così il Movimento gens (acronimo per generazione nuova sacerdotale). La stessa Chiara, comunicando la notizia della morte di don Silva- no, ha potuto dire: Tutti sapete come ha iniziato e seguito i nostri sacerdoti e tutto il mondo sacerdotale con generosità instancabile. Avendoli amati, li amò fino alla fine. Uomo del dialogo Tra le gioie più grandi della sua vita ci fu la giornata del 30 aprile 1982 che riunì, nell’Aula Paolo VI in Vaticano, 7 mila sacerdoti, religiosi e seminaristi aderenti allo spirito dei Focolari. Giovanni Paolo II tenne un memorabile discorso in cui parlò di Gesù crocifisso e abbandonato e dell’unità come grandi componenti del messaggio evangelico, e presiedette quella che L’Osservatore Romano definì la più grande concelebrazione da quando fu istituita l’Eucaristia. Chiara Lubich parlò del sacerdote come uomo del dialogo e indicò Gesù abbandonato come modello. Don Silvano, nel suo intervento, le fece eco: Ho capito in verità cos’è il sacerdozio, perché è proprio con l’abbandono e la morte in croce che Gesù ha generato la Chiesa assumendo in sé il peccato e il dolore universale. E mi sono detto: mia è dunque la lacerazione tra le Chiese cristiane, mio il disorientamento dottrinale, mia l’incomunicabilità tra sacerdote e vescovo, tra sacerdote e sacerdote, tra sacerdote e laico, mia l’incomprensione del celibato, mia la tentazione razionalista, mia la menzogna esistenziale tra il predicato e il vissuto, mia la solitudine dei sacerdoti. E aggiunse: Ma tutto questo dolore; è Gesù, il suo dolore, è proprio quel dolore sacerdotale che, se accettato e amato, genera la Chiesa. Uomo di dialogo, quindi. Negli anni successivi allo storico incontro dei movimenti ecclesiali con Giovanni Paolo II in piazza San Pietro nella Pentecoste del 1998, venne incaricato di lavorare anche per la comunione fra i movimenti. Anche lì profuse una attività infaticabile con tantissimi fecondi e fraterni contatti. Scrittore di valore E non si possono dimenticare i suoi libri, dovrebbero essere 22. Ce ne sono di livello scientifico, come ad esempio le traduzioni con introduzioni e note di diverse opere di san Girolamo. Poi alcune biografie, come i Profili dei Padri della Chiesa, o 22 contestatori fuori serie, vite di santi raccontate ai più giovani. C’è pure un lungo reportage sui dogmi fondamentali della Chiesa. Teologia per casalinghe, gli piaceva dire, scritta in modo delizioso. Ai suoi libri si aggiungono i suoi numerosissimi articoli, apparsi soprattutto nella rivista di vita ecclesiale Gen’s e su Città nuova. Don Silvano Cola era tra l’altro un esperto di psicologia, studiata all’università mentre era seminarista. Era affascinato da Gesù uomo per eccellenza. Ed era per tutti, anche per persone senza contatto con la Chiesa, amico e fratello. Era di tutti. Viene allora da dirsi che non è facile trovare riuniti in una sola persona capacità così diverse. Faceva parte della sua genialità poliedrica. La cosa però che più colpiva nel don Silvano intellettuale era la sua apertura mentale. Era un intuitivo, e il suo era un pensiero creativo. Soffriva con i dolori dell’umanità e i limiti ecclesiali cercando risposte adeguate ai tempi. Ma la sua era un’intelligenza alla ricerca di risposte che partissero dalla centralità del Vangelo, e ri- spondessero alle esigenze autentiche che crescono nell’umanità, anche nascoste dietro ad atteggiamenti e formulazioni sbagliate o insufficienti. Un modello Per sintetizzare la figura di don Silvano Cola, forse non c’è modo migliore che ricorrere al suo tanto amato Nuovo Testamento, in particolare a Paolo: Così da diventare modello per tutti i credenti (1 Ts 1,7). Una frase, questa, che Chiara Lubich gli aveva consigliato come parola di vita, parola da vivere. È vero: don Silvano provava un forte rifiuto per gli atteggiamenti edificanti, perché puntava sull’autenticità della vita, sulla radicalità e sulla sincerità dell’amore, rispettando gli altri e dando tempo (come fa la pazienza di Dio) alla maturazione delle persone. Proprio per questo è diventato, senza proporselo, modello per tanti, sacerdoti e laici, credenti e non credenti, giovani e adulti. Tratti paolini Le parole di mons. Giuseppe Petrocchi, vescovo di Latina, in occasione degli affollatissimi funerali di don Silvano Cola, concelebrati da quattro vescovi e da più di trecento sacerdoti. Don Silvano ha varcato la soglia del tempo ed è approdato nell’eternità di Dio. Nell’anima non avvertiamo il rintocco mesto delle campane a lutto, ma il suono gioioso delle campane a festa, che annunciano la pasqua. Don Silvano ha compiuto il santo viaggio, e il cuore ci assicura che vive già nella comunione dei santi, in paradiso. Perciò, pur avvertendo il dolore del distacco, l’abito interiore che oggi ci sembra giusto indossare è quello della letizia, e i sentimenti opportuni sono quelli della riconoscenza e della lode. Ricordo un episodio, avvenuto nel 1969. Insieme a Luigi Bonazzi, mio compagno di seminario – oggi nunzio apostolico a Cuba – venimmo da Roma a Grottaferrata, dove ebbi il mio primo colloquio con don Silvano. Non ricordo cosa ci dicemmo. Ho però molto nitida nella mente l’impressione forte che mi si stampò nell’anima, tanto che, uscendo, dissi a Luigi: Se san Paolo vivesse oggi, io me lo immaginerei così, con la figura e con lo stile di don Silvano. Quest’uomo è un gigante. A distanza di quasi 40 anni da quell’incontro, sento di confermare quella intuizione, con l’aggiunta che i contatti avuti frequentemente con lui in questo arco di tempo mi consentono oggi di identificare meglio alcuni di quei tratti paolini, generati in don Silvano dall’Ideale dell’unità: un pensiero vigoroso ed universale, la vita donata all’unità (per la quale si è consumato senza risparmio, fino all’ultimo), la libertà di spirito, la passione per la Chiesa, la lungimiranza profetica, il coraggio innovativo, la ricerca del dialogo a tutto campo, la perseveranza confidente anche nelle prove più dure; la testimonianza luminosa dell’amore che sa soffrire. In lui ho avvertito sempre un cuore di padre che compariva nel sorriso che non mancava mai sul suo volto; nello sguardo, attento,ma sempre benevolo e mai indagatore; nella parola, essenziale e profonda, cadenzata da frasi brevi, ma spesso folgoranti: una esposizione convinta e pacata, la sua, intervallata da efficaci pause di silenzio. Era un tipo intuitivo, capace di andare subito al centro della questione. Aveva, inoltre, una intelligenza creativa, robusta e originale, capace anche di una travolgente dialettica. Su ogni espressione e su tutti i gesti si manifestava la sua affabilità accogliente; l’entusiasmo contagioso e la gioia coinvolgente, che scaturiscono dal vivere la carità. Nel confronto interpersonale aveva un rispetto profondo: non imponeva nulla, ma lasciava che ognuno maturasse le idee giuste: da dentro, nel modo opportuno e con il tempo dovuto; guadagnava il consenso con mitezza, diventando trasparenza viva del Vangelo. Un amore, il suo, che scardinava difese e chiusure psicologiche, anche le più ermetiche.Aveva l’arte di capire e di dare consolazione e speranza. Un maestro straordinario, perciò, anzitutto perché modello di una vita spesa per l’unità. Appariva interiormente compatto, senza linee di frattura interiori. Nell’avvicinarlo ciascuno poteva sentire don Silvano come suo, ed era proprio così: intero per ciascuno e tutto di tutti. Lasciarsi accogliere nella grande casa del suo cuore significava immancabilmente incontrare tanti altri e fare con loro famiglia. Ha formato, con l’Ideale dell’unità, molte generazioni di sacerdoti e di seminaristi. Dio gli ha dato anche la grazia di vedere nascere, da quella dedizione, un buon numero di vescovi. Vorrei esprimere quello che mi passa nel cuore attraverso una immagine. Nell’orto botanico di Ninfa, non lontano da qui, si trova una pianta straordinaria, la magnolia Campbelli, un albero raro proveniente dall’Himalaia. Man mano che cresce, i rami si dispongono a raggiera, formando una serie concentrica di anelli, che si sviluppano in successione: dal più largo, alla base, fino al più piccolo, al vertice. Solo dopo molti anni, quando tutte queste corone si sono completate, l’albero comincia a fiorire. Inizia dall’anello più in basso, al quale si aggiunge, ogni anno, l’anello successivo. Quando è tutto fiorito, l’albero muore. Muore non perché decadente, ma perché ha raggiunto la pienezza della vita. Così è avvenuto per don Silvano: questo prezioso albero di vita, animato dal carisma dell’Opera di Maria, ha portato frutti splendidi nella Chiesa e nel mondo e, arrivata la stagione del compimento, è stato trapiantato nel giardino del Cielo, dove, ne siamo sicuri, continuerà a portare, ancora più di prima, i frutti della verità, dell’amore e della bellezza: cioè i frutti dell’unità. Se uno mi chiedesse chi era o, meglio, chi è don Silvano, risponderei così: un autentico figlio di Chiara Lubich, un uomo di comunione, e, proprio per questo, un uomo-fatto-Chiesa. Sì, lo dico con fierezza evangelica: don Silvano ha dato un importante contributo per rendere la Chiesa più-una, più-santa, più-cattolica, più-apostolica. In una parola: per fare la Chiesa più-Chiesa. La storia darà la possibilità di valutare meglio le dimensioni di questa epifania che lo Spirito Santo ha suscitato in lui e attraverso lui. a cura di Enrique Cambòn DAL CARD. BERTONE Il segretario di Stato vaticano, card. Tarcisio Bertone, ha inviato il seguente telegramma a Chiara Lubich: Informato della scomparsa di don Silvano Cola, desidero esprimere sentite condoglianze a lei e all’intero movimento, come anche a familiari ed estimatori per il compianto ministro dell’altare e del Vangelo. Invoco, in quanti ne piangono la dipartita, il conforto della speranza cristiana.