Un uomo libero

Gli anni Trenta del Novecento sono anni durissimi, segnati dal fascismo. La vita e gli scritti di Giordani di quei giorni sono un vero manifesto della sua resistenza etica e culturale. Come Tommaso Sorgi racconta ne Igino Giordani, storia dell'uomo che divenne Foco (Città Nuova, 2014)
Igino Giordani

Di fronte a questo trattamento riservatogli dal potere politico e da quella parte della società italiana che s’era omologata al regime, Giordani mise in atto per sé quanto aveva già scritto in Rivolta cattolica. Lì a quanti, non disposti a cedere al totalitarismo, volevano mantenere ancora in vita l’appello sturziano ai liberi e forti, aveva rivolto questo invito:

Resistere […]: non cedere una spanna, non ammettere un compromesso […]. Utilizziamo questa compressione fisica e psichica per irrigidirci nell’intransigenza della norma etica […]. Cingere quest’orgia sbracata con un cordone sanitario di serietà e di studio […]. Contro la dittatura affermare la libertà […], l’indipendenza dei convincimenti […]. La paganità spirituale e politica dovrà spezzarsi, ai piedi della nostra fermezza muta […]. Occorreranno forse anni […], ma di chi sa resistere e penare è la vittoria.

Queste espressioni sono contenute in un lungo brano dal titolo La dignità dell’antifascismo, uno dei capitoli più nobili di quel libro.

È un vero manifesto della resistenza, intendendo per essa una realtà storicamente individuabile, come s’impegna a sostenere Carlo Dane: realtà morale ma anche politica, quale azione distinta dalla resistenza intesa come lotta armata di liberazione e quale «premessa necessaria» ad essa. La resistenza di Giordani è innanzitutto etica e culturale – valori, studio, convincimenti – e rifiuta la dittatura oltre che sul piano politico, anche e prima sul piano antropologico, in quanto essa «avvilisce la dignità umana», riducendo gli uomini a «ciurma bruta» (concetto analogo a quello di Montesquieu e altri sul dispotismo). Ma è una resistenza che si concreta anche sul piano propriamente politico, per l’impegno nel riaffermare la concezione democratica dello stato e le posizioni programmatiche del popolarismo: una resistenza la quale rifiuti la passività che porterebbe allo «intorpidimento», e sia «riscossa dello spirito» con la «prospettiva della liberazione».

«Noi ci struggiamo – egli scriveva – come i padri del Risorgimento, per la libertà, prepariamo la democrazia», contando soprattutto sulla gioventù e in particolare sulla Gioventù Cattolica: essa «sarà lo scheletro della futura Italia, se si disciplinerà nello studio e nella preparazione per la conquista pacifica della vita pubblica». Parlava di «resistenza muta».

Scriveva: «Opporre l’educazione del silenzio» al fiume di retorica e di simboli del regime, opporre «al culto della forza il culto del pensiero».

La resistenza da lui idealizzata era «senza pose gladiatorie, né vittimistiche», fatta di «pazienza e insistenza», vissuta con «mansuetudine», sì, però virilmente, «senza timidezze, senza guardarsi troppo dall’esteriorizzare il proprio disgusto».

Questo, come si è visto, egli lo esteriorizzò. In quanto al silenzio, non lo rispettò troppo. Innanzitutto continuava a parlare il suo libro di rivolta; un libro che – scriverà poi uno che fece esperienza di lotta per la liberazione – «fu assai più che un libro: […] fu un breviario di pensiero e di vita, un testo fondamentale di propedeutica cattolica all’antifascismo e alla resistenza».

Rivolta cattolica fu un libro che in qualche modo circolò clandestinamente: come s’è visto sopra anche qualche vescovo lo leggeva e dava a leggere, e in qualche seminario veniva ridestato dal sonno delle biblioteche in attesa ed in preparazione di tempi nuovi.

Intanto però Giordani continuava a parlare anche di persona: se proprio non poteva più parlare esplicitamente di politica, non smise di educare alla libertà, alla coerenza del cristiano anche fuori dai muri della chiesa, al suo impegno di testimonianza nella vita civile. Non smise di esaltare l’indipendenza della coscienza di fronte al potere e il primato della persona di fronte allo stato, non si trattenne dal condannare il nazionalismo esasperato, la divinizzazione dello stato che si fa tutto, l’ergersi del capo dello stato a padrone delle masse. Per tali non troppo velati messaggi si appellò soprattutto alla storia dei primi secoli della Chiesa, con la resistenza eroica dei martiri e la polemica condotta dagli scrittori cristiani contro lo stato pagano; ne richiamò ed illustrò i contenuti e i significati in libri di apologetica e patristica, ma aveva anche modo di estendere tali discorsi – attraverso la rivista vaticana «Fides» – all’aggressione subita proprio in quegli anni dalla Chiesa e dal cristianesimo ad opera della politica perseguita da governi totalitari o laicisti.

Su tali fronti l’azione di resistenza morale e culturale di Giordani si svilupperà soprattutto negli anni Trenta, mentre un altro fronte gli si offriva, quasi senza interruzione dopo la fine della libertà, negli ultimi anni Venti: era l’attività giornalistica.

Nel gennaio del 1927, a due mesi dalla soppressione dei partiti, gli fu offerta l’occasione di immettersi nell’ambiente dell’Opera Cardinal Ferrari – Compagnia di S. Paolo, che gestiva, fra l’altro, varie attività editoriali: tra esse «Il Carroccio» di Milano, «La Festa» e «L’Avvenire d’Italia» di Bologna (periodici, i primi due, e un quotidiano). Richiesto dai dirigenti dell’Opera, ricominciava dal marzo di quell’anno a scrivere articoli. Ora scriveva per un’area geografica diversa da quella romana, ma dové usare, almeno in un primo tempo, diversi pseudonimi: Giovanni Massias, G. M., Fr. Thomas, Adolfo Salvati, Sagittario, D’Oncar.

Di tale collaborazione appare opportuno qui segnalare due momenti decisamente indicativi.

Nel maggio 1927 su «Il Carroccio» incitava gli scrittori cattolici italiani ad unirsi per svolgere un’azione tesa al «ripristino dell’influsso e dell’efficienza di una cultura nostra». L’anno successivo, mentre si trovava in Usa, la sua collaborazione con «L’Avvenire d’Italia» ebbe una crisi: non gli pubblicarono un articolo, che evidentemente avrebbe urtato la suscettibilità del regime. Registra sul Diario inglese: «ho ricevuto a mezzogiorno una lettera di Gino Moresco al quale ho risposto che non posso esser d’accordo con la loro pavidità e che, stando così le cose, non scriverò più per loro».

I responsabili del giornale si trovavano in difficoltà perché nel gennaio 1928 su «La Tribuna» era apparso un corsivo, in cui con toni minacciosi si chiedeva «una spiegazione» del fatto che tra i collaboratori del quotidiano cattolico figurassero «veri relitti dell’antifascismo sturziano e popolaresco, e in primissima linea certo professor Giordani Iginio (sic!), già noto attraverso le pagine di quell’osceno foglio che fu del fuoriuscito Donati». Il censore affermava: «i relitti dello sturzismo quartarellista non possono e non devono tornare a galla»: e notava che «L’Avvenire d’Italia», invece di mantenersi sul piano religioso, era «un giornale a pretta tinta politica».

Dai vigilantes del governo s’era ben presto scoperto chi operava sotto quegli pseudonimi, e si avvertiva chiaramente come gli articoli di quel «quartarellista» esprimessero sotto argomenti culturali e religiosi un contenuto tutt’altro che asettico nei confronti del regime.

Da Igino Giordani, Storia dell'uomo che divenne Foco, di Tommaso Sorgi (Città Nuova, 2014)

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