Un tuffo nell’eternità
Di lui colpiscono la vitalità, lo sguardo concentrato, la perfezione anatomica e della postura: sta infatti effettuando il tuffo cosiddetto “carpiato”, in cui il corpo, inizialmente flesso in avanti ad angolo, con braccia e gambe avvicinate, si tende durante il volo abbassando testa e braccia per facilitare l’impatto con la superficie liquida. Sto parlando del Tuffatore di Paestum, lastra funeraria dipinta oggi in esposizione al palazzo reale di Milano insieme ad oltre duecento opere d’arte greca, magnogreca e romana, provenienti da vari musei italiani ed esteri. “Mito e natura” è il titolo di questa mostra collegata ai temi di Expo 2015 e intesa a mettere in luce sia l’influsso della natura sulle origini della civiltà occidentale, sia l’azione dell’uomo sull’ambiente. Fino al 10 gennaio 2016 il pubblico potrà approfondire questo aspetto poco noto del mondo classico attraverso reperti d’eccezione come i “piatti da pesce” apuli, i pìnakes votivi da Locri, il “Vaso blu” da Pompei, gli affreschi con le storie di Ulisse dai Musei Vaticani e quelli, sempre da Pompei, della Casa del bracciale d’oro; e ancora, le prime rappresentazioni di “nature morte”, statue, argenterie, monili aurei…
Fra tanta abbondanza ritrovo una mia vecchia conoscenza: il Tuffatore di Paestum, appunto, lastra di copertura di una tomba a cassa in pietra calcarea, la cui scoperta avvenuta nell’ottobre 1968 destò l’interesse mondiale dei media e degli studiosi, quale prima testimonianza giunta fino a noi della perduta pittura greca: venne infatti datata al 480/470 a C., all’epoca quindi della città magnogreca divenuta poi colonia romana. Esaminiamola da vicino. Dentro una elegante cornice formata da una sottile striscia nera che ai quattro angoli presenta palmette rosso scuro, sullo sfondo di un intonaco bianco, si svolge la scena – semplice, ma estremamente suggestiva – di un giovane nudo che si tuffa in uno specchio d’acqua dall’alto di una specie di trampolino. Due alberi stilizzati completano una raffigurazione, almeno in apparenza, d’immediata comprensione.
In risposta a chi, dando ad essa un significato sportivo, si chiede se la tomba in questione sia appartenuta a qualche campione di nuoto, va fatto presente che negli agoni greci non erano contemplati tuffi e gare di nuoto. Rende perplessi anche il cosiddetto “trampolino”, sulla cui esistenza nell’antichità non ci sono pervenute testimonianze archeologiche o letterarie (fra l’altro manca perfino la parola corrispondente in greco antico).
Il fatto è che noi moderni rischiamo spesso di guardare al passato con le nostre categorie e le nostre conoscenze. Porto un esempio. Durante una mia visita al sito archeologico di Paestum, la mia attenzione fu attratta da una grande piscina che lungo uno dei lati presentava una strana struttura in blocchi di calcare simile a un labirinto. Una guida locale mi spiegò che ci trovavamo in un ginnasio, dove la gioventù pestana faceva gare di nuoto; tra gli esercizi, il percorso in quel labirinto subacqueo. L’ ipotesi era suggestiva, senonché – come seppi poi – quella piscina faceva parte di un santuario dedicato alla Fortuna Virilis, un'emanazione di Venere, risalente nella sua fase più antica al III secolo a.C. Lì, in occasione della festa primaverile della dea, veniva effettuato il bagno rituale della statua. Probabilmente quella singolare struttura in pietra sosteneva un palco ligneo sul quale si svolgeva parte di questa cerimonia.
Dopo questa digressione, cerchiamo di capire il vero significato della scena del “tuffo”. Necessariamente essa è collegata al ciclo di affreschi delle altre quattro lastre rimaste a Paestum (ne abbiamo in mostra le riproduzioni fotografiche): rappresentano un simposio, ovvero un convitto con quattordici personaggi distesi per lo più sui letti conviviali. Fermiamo l’attenzione su quello barbuto della lastra sud: volge il capo indietro, col gomito sinistro è appoggiato sul cuscino mentre il braccio destro disteso regge una lira. Cosa ostenta nella mano sinistra? Un uovo. Quest’uovo, simbolo di resurrezione nella pittura funeraria sia etrusca che lucana, dove è sempre in mano ad una figura maschile, sembra un richiamo a rituali orfici o pitagorici: vi ritorneremo più avanti.
Rivolgiamoci ora ai tre soggetti in piedi raffigurati nella lastra corta del lato ovest: da sinistra verso destra si susseguono una figura virile ammantata e munita di bastone, un atletico efebo nudo con sciarpa azzurra che incede a passo di danza, una fanciullina che suona il doppio flauto. La figura mediana non è l’atleta che si avvia a qualche pratica sportiva accompagnato dal pedagogo. È il suo commiato dal convivio e dalla vita terrena. Quel giovane lo ritroviamo sul “cielo” della tomba, in atto di tuffarsi.
Ora è chiaro che quella del Tuffatore non è una scena reale (lo stesso sfondo bianco, non naturalistico, lo rivela), ma simbolica. E il cosiddetto “trampolino” raffigurerebbe – come è stato ipotizzato – le colonne d’Ercole che nell’antichità segnavano il termine del mondo conosciuto: il passaggio quindi da questa vita terrena all’ignoto dell’aldilà (tra l’altro nel V secolo a. C. si parlava di una sola colonna).
«Del resto – scrive Mario Napoli, l’archeologo a cui è legata la scoperta della Tomba del Tuffatore –, è molto diffuso in miti ed in tradizioni greche un significato di purificazione, di immortalità e di sopravvivenza dopo la morte connesso con l’immersione o con il tuffo nel mare, e basterà ricordare i miti di Achille, di Glauco, di Ino e del così detto suicidio di Saffo, e diciamo così detto suicidio, perché è noto, in particolare attraverso una glossa di Servio, che Saffo si gettò in mare non per morire, ma per sopravvivere al suo infelice amore». Lo stesso studioso ricorda che, nel mondo greco, la possibilità di immortalità è contemplata in alcuni insegnamenti e culti esoterici, tra i quali in particolare quelli orfico-pitagorici ai quali rimanda il suonatore di lira con l’uovo in mano; culti orfico-pitagorici peculiari, tra l’altro, della Magna Grecia dove Pitagora, originario dell’isola di Samo, fondò la sua scuola (a Crotone, nell’attuale Calabria).
Un particolare commovente vorrei notare, a conclusione di questa sintetica illustrazione. Un angolo della lastra col “tuffo” è interessato da una frattura precedente alla pittura e al montaggio della tomba, tant’è vero che per evitarla la cornice dipinta che circonda la scena s‘incurva proprio in quel posto. Siccome è frequente il caso di tombe con l’angolo spezzato, ma rimesso in sito prima dell’interramento, si può pensare ad un motivo rituale: «ad una volontà – commenta ancora Mario Napoli – di creare tra interno della tomba e esterno una comunicazione, però puramente simbolica». Sempre l’uomo non si rassegna al distacco dai vivi operato dalla morte e cerca un contatto con quel mondo da cui ha preso congedo.