Un tuffo nella letteratura giapponese
“Le ricette della signora Tokue” è un romanzo di Durian Sukegawa, nome d’arte di Tetsuya Sukegawa, nato a Tokyo nel 1962. Con una laurea in filosofia orientale e una in pasticceria, ecco che il suo primo libro non poteva essere altro che questo romanzo: un viaggio nell’arte culinaria giapponese delle antiche tradizioni e, allo stesso tempo, un viaggio nelle profondità dell’animo umano. Ma prima di addentrarci nelle peculiarità di questa narrazione, parliamo un po’ della trama del libro (no spoiler) e della sua genesi.
Il romanzo viene pubblicato per la prima volta nel 2013 dalla giapponese Popular publishing & CO, ripreso poi nel 2018 dalla famosa casa editrice italiana dello struzzo, l’Einaudi. Ne è stato tratto un film, “Le ricette della signora Toku”, presentato al Festival di Cannes nel 2015. Un esordio notevole per Durian Sukegawa, che ha poi scritto “Il sogno di Ryosuke” e “I gatti di Shinjuku”. Sempre editi Einaudi, pubblicati in Italia, rispettivamente, nel 2022 e nel 2023.
La trama di “Le ricette della signora Tokue” la definirei abbastanza lineare. Una narrazione da dividere in tre parti: una situazione iniziale di stallo, una fase centrale in cui vengono inseriti elementi che mescolano le carte in tavola e una parte finale totalmente fuori da ogni aspettativa. Il protagonista è un ragazzo di nome Sentarō, con un passato tortuoso, il cui sogno è lavorare come scrittore. Rimane però un desiderio chiuso in un cassetto, perché per pagare un vecchio debito è costretto a lavorare ogni giorno della sua vita in un piccolo chiosco che vende dorayaki a Tokyo. Si tratta di piccoli dolci giapponesi fatti di una pasta simile a quella dei pancake -non me ne vogliano i giapponesi se do questa definizione approssimativa- con all’interno una soffice confettura dolce e viola di fagioli azuki.
Così, i giorni di Sentarō si susseguono monotoni in questa bottega in una piccola stradina laterale, poco frequentata, a vendere quei pochi dorayaki che riesce. Di fronte, un ciliegio che cambia colore ogni stagione, l’unico a mutare in quel panorama statico. La sera Sentarō, stanco e depresso perché non riesce a trovare il tempo e le energie di scrivere il libro che sogna, si ritira nel suo minuscolo appartamento.
Tuttavia, un giorno alla porta del chiosco si presenta una vecchissima signora, con delle mani storte e spaventose, che si offre di aiutarlo a migliorare i ricavi della bottega insegnandogli l’arte di fare a mano la confettura di fagioli azuki, come da tradizione. Non chiede quasi nulla in cambio. Il solo rendersi utile e rapportarsi con i clienti, cosa che Sentarō non aveva mai fatto, sembra riempirla di felicità. Ma la signora Tokue nasconde un segreto, sarà l’arcigna proprietaria del locale a scoprirlo e a spingere Sentarō a mandare via l’anziana. Eppure, il ragazzo non si dà pace. Dove è finita quella signora che gli ha mostrato uno sprazzo di felicità in un cielo per lui sempre più cupo?
La delicatezza che mi aspettavo di trovare in un romanzo giapponese c’è stata. I colori, i profumi, le tradizioni, sembra di avvertire tutto. Scritto molto bene, piacevole da leggere, non troppo lungo (180 pagine). Fa staccare da una realtà per trasportare il lettore in un’altra dai toni di un sogno. Per gran parte del romanzo questa narrazione delicata lascia l’impressione che, più che avere un finale d’impatto, la storia si concluderà nella maniera tranquilla, seppure coinvolgente, con cui è iniziata. Nulla fa percepire, anche fisicamente dalla copertina, dal titolo e dal piccolo sunto sul retro, la piega molto più complessa che prende il romanzo.
Mi ha colto di sorpresa, una meraviglia inizialmente negativa. Forse avrei preferito un accenno a ciò che sarebbe stato poi trattato, ovvero la tematica della lebbra a Tokyo, che per un periodo fu un vero e proprio dramma sociale che vide intere famiglie separate con la forza, persone isolate in ghetti. Certo è che quel cambio di rotta improvviso, a posteriori e per chi conosce già la narrativa giapponese, diventa più comprensibile. «Quella giapponese è una letteratura spesso cupa, triste, velata di nostalgia, intrisa di angosce, con pagine scure, il suicidio, la depressione sono sovente degli elementi chiave dei romanzi giapponesi, che rispecchiano un certo male di vivere, latente nella società giapponese» (expatclic.com).
Perciò, sebbene questo fosse il mio primo approccio a questo mondo, avevo comunque una vaga, anche se molto piccola, aspettativa che ci fosse un po’ di amaro in questa storia, da qualche parte. Pensavo però fosse limitato all’iniziale depressione di Sentarō, seguito poi da un lieto fine. Alla fine, una sorta di lieto fine c’è, ma fuori da ogni aspettativa…
Nel complesso il romanzo merita un giudizio positivo. Ottimo per approcciare alla letteratura giapponese. Vi farà gioire, intenerire, commuovere, e sperare con i protagonisti, donandovi un minestrone di sensazioni e lasciandovi con possibili risposte alle domande di senso della vita. Qual è la ricetta della felicità? Sentarō, forse, l’ha trovata…
Una delle citazioni più potenti del libro, le parole del personaggio della signora Tokue, per concludere. «Ma al mondo ci sono bambini la cui vita si interrompe a soli due anni. Allora, nel dolore, tutti si chiedono che senso abbia avuto la nascita di quei bambini. Adesso io lo so. È sicuramente perché anche loro possano sentire, ciascuno a suo modo, il cielo, il vento e le parole».
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