Un test per diventare italiani

Dal 9 dicembre per richiedere il permesso di soggiorno di lungo periodo gli stranieri dovranno dimostrare di conoscere l’italiano.
immigrati

Se Michael Schumacher lavorasse ancora per la Ferrari, forse oggi si troverebbe in grande difficoltà: nonostante i tanti anni trascorsi a Maranello, la sua conoscenza dell’italiano è sempre stata limitata a brevi saluti e timidi balbettii. Dal 9 dicembre è scattato, infatti, l’obbligo per gli stranieri di superare un test d’italiano per ottenere un “permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo”. Una prova richiesta a coloro che non sono già in possesso di un titolo attestante una conoscenza di base della lingua di Dante.

 

Il test è obbligatorio per quegli stranieri che, vivendo in Italia da cinque anni, intendono ottenere un permesso di soggiorno a tempo indeterminato. Per affrontare le prove (la comprensione di un testo, di frasi e di espressione di uso frequente, con una soglia di sbarramento dell’ottanta per cento delle risposte), che si svolgeranno su un supporto informatico o, a scelta, per iscritto, ci si dovrà prenotare sul sito http://testitaliano.interno.it. Entro sessanta giorni, ci sarà la convocazione da parte della Prefettura. Successivamente, e soltanto se il test sarà superato, si potrà presentare la domanda alla Questura per richiedere il permesso di soggiorno.

 

Contenuto nel decreto firmato dai ministri dell’Interno, Roberto Maroni, e dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, il provvedimento nasce dalla volontà di garantire maggiore sicurezza nelle città, ma è stato oggetto di numerose polemiche, soprattutto sull’eventuale esistenza di un legame diretto tra conoscenza della lingua italiana e rispetto delle leggi.

 

Certo, sapersi esprimere, comprendere coloro che sono vicini, è importante. Non soltanto nella vita di ogni giorno, ma anche nel mondo di lavoro. Tuttavia, sottolinea Alessandra Tornillo, docente e responsabile del coordinamento nel Dipartimento delle lingue presso l’Università pontificia Urbaniana di Roma, maggiore conoscenza della lingua italiana non significa maggiore integrazione. «Certamente – afferma – è un valore aggiunto. Se conosci la lingua, la comprendi e ti inculturi nel Paese dove ti trovi. L’importante è non improvvisarsi insegnanti. Ormai, non si parte più dall’approccio grammaticale, ma da quello comunicativo, che è più impegnativo per docenti e studenti, ma obbligando a pensare in italiano, favorisce l’inculturazione».

 

Per gli immigrati, questo non si traduce in una perdita di identità, delle proprie origini, delle proprie radici. C’è soltanto un arricchimento. «Con la conoscenza dell’italiano – aggiunge Tornillo – non si resta chiusi nel proprio mondo, viene favorito il dialogo, l’incontro con gli altri. Si abbattono i muri. Questo, però, a mio avviso non incide sulla questione della sicurezza. Tante persone parlano l’italiano, ma fanno scelte discutibili. Un discorso diverso sarebbe quello di aiutare le persone ad integrarsi, offrendo il servizio delle lingue straniere».

 

E se, come qualcuno ha ipotizzato, questo ulteriore vincolo porterà ad un aumento degli irregolari, lo si saprà soltanto nel lungo periodo. È vero però che se, maggiori requisiti vengono richiesti, più difficoltà si devono affrontare, per regolarizzare la propria posizione.

 

 

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