Un sorriso tra le sbarre
Suor Viera, da ragazza ribelle a segno di speranza per le detenute di Rebibbia.
«Cara suor Viera, qui la solitudine è senza frontiere, senza orizzonti, ti angoscia e ti annienta, ma con tutti i nostri limiti entra il Signore, la sua Parola con te. Ci riprendi, ci sproni, ci consoli col tuo sorriso e il tuo carisma, ci dai speranza, non siamo abbandonate». Firmato, una delle 450 detenute del carcere di Rebibbia.
Due o tre volte la settimana, suor Viera, delle suore francescane dei poveri di Vermicino, va a trovarle. Porta materiale per scrivere, tabacco e le copie degli abbonamenti di Città Nuova donate da tanti volontari per lasciare un segno di speranza in questa prigione romana.
Il sorriso di suor Viera nasce dal dolore. A 22 anni Melina (il suo nome di battesimo) è stanca di tutto: incomprensioni familiari, problemi in fabbrica. La vita le sembra inutile. «Per sentirmi appagata – ricorda – mi ero iscritta al partito comunista, unico ambiente in cui avevo sentito parlare di giustizia, uguaglianza, verità, diritti». Ma Melina è triste. «Anche nel partito – dice – c’erano ingiustizie, stavo lottando a vuoto. Stavo compiendo un gesto irreparabile, ma Dio ha permesso che mi rendessi conto del male che avrei fatto a mia madre».
Melina decide di scappare, ma incontra «la persona giusta: suor Cristina. Mi invitò a un incontro con altri giovani: si parlava di Dio, si mettevano in comunione esperienze, gioie, pasti. La prima volta mi sono sentita fuori posto, non capivo nulla. Tornando a casa pensavo: “Sono tutti matti”. Prima di addormentarmi, però, ero ancora impregnata della gioia che circolava tra loro. Andai spesso a trovare suor Cristina e iniziai un cammino di recupero morale e spirituale». Melina prende i voti. Un nome nuovo, Viera (Vita-Vera), e una frase del Vangelo («In nessun altro vi è salvezza»), «insieme alla certezza di essere amata da Dio immensamente, sono stati un’ancora di salvezza».
Sull’esempio della beata Francesca Schervier, che nei sofferenti riconosceva il volto del Signore, suor Viera da oltre 16 anni si dedica a chi è in prigione «per testimoniare alle carcerate – spiega – che Dio le ama immensamente e che la loro permanenza può essere un’opportunità per guardarsi nel profondo, col coraggio di mettersi in discussione, approfondendo con la preghiera il dialogo con Dio. Il mio atteggiamento è quello di una madre che ascolta con obiettività e prudenza; consola con un amore senza limiti e asciuga le lacrime di chi si pente».
In carcere c’è chi ha rubato per fame o per non fare la prostituta, chi lo è diventato perché costretta, chi ha figli, chi ha commesso omicidi, chi vorrebbe tornare dalla famiglia. Come F., accolta nella comunità di Casa Schervier per i permessi premio. Quand’è arrivata era felice, ma molto preoccupata per l’incontro con la figlia che non vedeva da tre anni. Un lungo dialogo con suor Viera e la psicologa e piccoli passi di avvicinamento hanno però permesso alle due donne di ritrovarsi. Una gioia immensa. «Grazie suor Viera – scrive F. –, mi hai aiutato a cambiare vita, mi hai restituito l’affetto più caro, mia figlia, che credevo di aver perduto. Ma niente è perduto quando esistono persone pronte ad aiutarti e ad insegnarti che c’è ancora qualcuno che si fida di te e ti ama immensamente».