Un sorriso all’Istituto Tumori

«I rapporti valgono metà o più delle cure». Un’imprevista esperienza di vicinanza e attenzione, al reparto oncologico
Foto di Freepik

Eccomi di nuovo nella sala d’aspetto dell’Istituto Tumori per la visita periodica. La sala è piena di miei “colleghi” ammalati, ognuno con la sua storia di dolore e terrore. Stavolta però sono calmo e rassegnato, so come funziona il sistema. Ci ho messo qualche mese a capirlo, ma ora accetto tutto con pace.

So che devo prendere il numeretto (fatto!), e starmene buono ad aspettare, perché la chiamata non arriva mai all’orario previsto, di solito c’è un’oretta di ritardo. Quando sul totem apparirà il mio numero, dovrò affrettami a entrare nel reparto e cercare la stanza dell’oncologo che oggi si occuperà di me. Ma chi sarà costui non lo posso sapere, perché non è mai lo stesso. Ho imparato che dovrò accedere al suo cospetto chiedendo scusa, perché sarò di fronte a un personaggio che ha tanti casi drammatici da seguire e poco tempo per me, per cui non devo farlo spazientire e il mio atteggiamento nei suoi confronti, perché le cose funzionino, deve essere improntato alla più chiara sudditanza.

Lui non mi mostrerà mai il suo volto, celato dietro una mascherina. Potrò capire solo se è uomo o donna, e se ha i capelli bruni o la testa pelata. Potrò anche chiedergli il nome, ma null’altro che lo riguardi, perché il distacco è la caratteristica di queste visite. Cosa che si capisce: se un oncologo dovesse entrare in empatia con tutto il mondo dolorante e disperato dei pazienti che visita, finirebbe per sentirsi male…

So già che lo troverò con le mani sulla tastiera del computer. Senza smettere di digitare e osservare il monitor per tutto il tempo in cui starò con lui… mi inviterà a mostrargli gli esiti delle analisi e dei referti che con fatica mi sono procurato. Potrà esserci anche un momento in cui mi guarderà in faccia, di sfuggita, magari quando mi darà le nuove impegnative. E tutto sarà finito.

Se accetto questa situazione kafkiana è perché mi è stato detto che è il prezzo dell’eccellenza. Cosa è meglio per me, infatti, prendere pacche sulle spalle da un oncologo che magari mi dà anche il suo cellulare, e poi non è al passo con le cure più avanzate, o affidarsi a un Istituto robotizzato e impersonale che però, nella collegialità, offre al paziente la maggior probabilità possibile dei migliori risultati? Alla fine sul totem compare il mio numero! Accedo ai corridoi, e trovo la stanza dove devo andare. Non c’è nessuno. Quand’ecco un fruscio dietro me e una sensazione di cordialità, una mano protesa e un viso aperto, senza mascherina e con un sorriso impensabile.

La dottoressa si presenta dicendo a voce alta il suo nome e le stringo la mano. Non appare importunata dalla mia visita, e non sta al computer. Guarda le analisi con interesse, commentando e informando con una semplicità e leggerezza che spazza via ogni tipo di paura. Io avanzo timidamente le domande che tenevo in serbo per quella visita, e mi sento ascoltato, lei si “cala” nella mia situazione e risponde in modo chiaro, senza le solite frasi vaghe tipo “stia attento”, o peggio indirizzandomi ad altre visite specialistiche. Per questo suo atteggiamento mi sento accolto. E pensare che ha fatto tutto velocemente, ma mi ha donato un rapporto, quello che, dicono tanti dottori, vale metà o più delle cure.

Il giorno dopo è festivo, e sento di inviarle una mail di ringraziamento. Dopo un po’ mi arriva la risposta automatica dell’Istituto Tumori, con i soliti avvisi che invitano i pazienti a non pretendere consulti via mail e, per le urgenze, a non chiedere aiuto fuori dagli orari di lavoro. Ma stavolta c’è una novità. Insieme a tutte queste avvertenze c’è la risposta della dottoressa, che tra l’altro azzarda a dirmi: «Rimango a disposizione per eventuali necessità».

Incredulo spengo il computer e guardo il quadretto della Madonna del Ferruzzi che ho in testa al letto, quella che tiene il Bambinello in braccio e leva lo sguardo in alto come a chiedere grazie per Lui. Mi sono sempre identificato in quel Gesù bambino.

E dal cuore mi esce una preghiera: «Grazie, mamma, di questa carezza che mi hai dato, e fa’ che l’atteggiamento di questa giovane dottoressa contagi i suoi colleghi, e che contagi soprattutto me, in questo periodo della vita in cui tendo a rinchiudermi come un riccio». E mi pare che il volto della Madonnina sorrida.

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