Un si o un no per tutelare la vita ?
Con l’Ordinanza del 15 dicembre 2021, l’Ufficio Centrale per il Referendum presso la Corte Suprema di Cassazione ha dichiarato conforme a legge la richiesta di referendum popolare abrogativo di una parte del reato di omicidio del consenziente ( art.579 c.p) ed il 15 febbraio 2022 i giudici della Corte Costituzionale dovranno pronunciarsi sull’ammissibilità di questa proposta referendaria.
In materia di cd suicidio assistito, La Corte Costituzionale, già nella nota Sentenza n.242 del 2019 relativa al caso Dj Fabo e Cappato, ha avuto modo di affermare in maniera inequivocabile ( richiamando alcuni passaggi della nota decisione del caso Pretty c. Regno Unito) che dal diritto alla vita garantito dall’art. 2 CEDU non possa derivare un diametralmente opposto diritto alla morte, esiste semmai un diritto a morire in maniera dignitosa, dando risalto alla dimensione morale del consenso quale elemento fondamentale nelle decisioni di fine vita.
La fattispecie penale del suicidio assistito ( art.580 c.p.) è strettamente correlata a quella dell’omicidio del consenziente ( art.579 c.p.) in quanto entrambi le norme rientrano nei “delitti contro la persona” di cui al Titolo XII del Codice penale e, più precisamente, dei “ delitti contro la vita e l’incolumità individuale “ di cui al Capo I di detto Titolo, dove troviamo la norma di cui all’art.575 c.p. relativa alla disciplina generale dell’omicidio in base alla quale“ chiunque cagiona la morte di un uomo è punito con la reclusione non inferiore ad anni ventuno”.
La parziale abrogazione dell’art.579 c.p., qualora venisse confermata dalla Corte Costituzionale, avrebbe come risultato la non punibilità dell’omicidio del consenziente (al di fuori delle ipotesi di incapacità o minore età della vittima o di consenso viziato) e ciò, a parere di chi scrive, creerebbe non poche criticità al principio cardine di una democrazia rappresentato dal fondamentale dovere dello Stato di tutelare la vita di ogni singolo individuo della collettività.
A prescindere dalle questioni politiche, religiose o culturali, la vita umana dovrebbe esser considerata il bene fondamentale senza arrivare a scomodare termini come quelli della sacralità e della dignità umana che, da quel che possiamo constatare, servono solo per contrappore ulteriormente le diverse posizioni di pensiero, alimentando il conflitto socio-culturale-politico e religioso, a discapito di ogni singolo individuo che di fatto sta vivendo nelle gravi sofferenze psico-fisiche causate da una determinata patologia.
Senza questo bene fondamentale che è la vita, peraltro, non può esservi libertà ed autodeterminazione alcuna; la tutela della libertà e dell’autodeterminazione di ogni singolo individuo, infatti, inizia proprio dall’effettiva tutela della vita di questa stessa persona, a maggior ragione nei momenti della malattia, della sofferenza fisica e psichica, quando l’essenza stessa dell’esistenza umana si esprime nelle sue forme più labili e delicate, vulnerabili e fragili appunto, ma non per questo meno meritevoli di rispetto e di tutela.
Attorno ai temi della vita, con tutta franchezza, è frustrante ( sia umanamente che giuridicamente) sentir parlare di principi come quello della disponibilità o della indisponibilità della vita stessa; una società civile e democratica dovrebbe prendersi cura della vita delle persone, in tutte le fasi di questa vita: dal concepimento, dalla nascita, alla crescita giovanile, negli studi, nel lavoro, nel corso della vecchiaia, nella malattia e nelle fasi ultime dell’esistenza.
Ed infatti, uno Stato democratico e liberale deve garantire e tutelare questa cura quotidiana della vita e non limitarsi ad affermazioni di principio concernenti la dignità umana o la sacralità della vita; ciò che è dignitoso o sacro per me, potrebbe non esserlo per altre persone, e viceversa, pertanto è importante attuare ogni giorno quella uguaglianza sostanziale che va oltre le dichiarazioni di principio o di fede, facendosi carico dei bisogni e delle criticità di ogni singolo individuo.
Ecco perché il Parlamento e le Istituzioni tutte in generale, dovrebbero guardare in faccia la realtà quotidiana di chi soffre e di chi vive in condizioni di vulnerabilità, facendo attenzione al pericoloso meccanismo per cui un principio giuridico ma anche politico o religioso ( qualsiasi esso sia), se portato all’estremo, potrebbe declinarsi nel suo esatto contrario.
E mi riferisco proprio ai principi della disponibilità e della indisponibilità della vita: l’insistenza e l’enfatizzazione di questi stessi principi ( in un senso o nell’altro, appunto), paradossalmente, potrebbe comportate gravi ripercussioni proprio allo stesso bene qui in gioco e cioè la vita umana ! Chiediamoci, semmai, quanto e come (e perché) ognuno di noi sia davvero disponibile a tutelare il bene della vita.
E’ opportuno concentrarsi non sulla contrapposizione bensì sull’equilibrio e l’armonia tra il classificare indisponibile il diritto alla vita ( in quanto inalienabile ed irrinunciabile) e l’affermare che se non esiste un “diritto di morire”, nella realtà quotidiana dovrebbe esser riconosciuto – quanto meno – un diritto a “lasciarsi morire” inteso come diritto di rifiutare determinati trattamenti sanitari ritenuti ( dal malato) al quanto invasivi e comunque non desiderati, se non addirittura connotati dal carattere dell’accanimento clinico.
E’ necessario confrontarsi (giuristi, sociologi ed antropologi, religiosi, politici, filosofi, medici e pazienti) per cercare insieme di individuare “un modello” che sappia mediare e contemperare l’autodeterminazione e la protezione del singolo individuo, nonché la libertà e la garanzia da qualsiasi forma di abuso: il diritto penale rimane uno strumento ( laico) fondamentale per cercare di preservare questo equilibrio, ma certamente non è più sufficiente.
Così come, forse, non è più sufficiente un referendum popolare per tutelare davvero il bene della vita; basti pensare al referendum del 1981 che mirava ad abrogare ( anche solo parzialmente) la legge n.194 del 1978 intitolata “ Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione della gravidanza “ e che all’art.1, comma 1 prevede questa enunciazione di principio: “ lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio”, principio che non sempre trova conferma ( e soprattutto attuazione) nella realtà di tutti i giorni.
Si pensi all’attività dei consultori familiari previsti dall’art.2 della legge 194/78 che, in base a detta norma, dovrebbero contribuire “ a far superare le cause che potrebbero indurre la donna all’interruzione della gravidanza “…
Per tutelare la vita di una persona, sia essa all’inizio, alla fine oppure in una fase intermedia, non basta un “si” o un “no”: occorre lasciarsi mettere in discussione dai valori e dai principi, confrontarsi, discutere, battagliare sulle posizioni ma, soprattutto, è necessario darsi da fare in prima persona per stare accanto alle persone fragili e vulnerabili, prendendosi cura di loro.
Prima di abolire le tutele laiche (penalistiche) dell’aiuto al suicidio e dell’omicidio del consenziente, uno Stato liberale democratico dovrebbe garantire ad ogni singolo cittadino, soprattutto se fragile e vulnerabile, la possibilità di accedere su tutto il territorio del Paese ( ugualmente e tempestivamente) alle cure palliative di cui alla Legge n.38 del 2010.
Per concretizzare questo prendersi cura dell’altro, non è sufficiente un referendum o la modifica di una norma penale; anziché continuare a proclamare i principi, iniziamo ad attuarli questi stessi principi con le persone e le risorse economiche che abbiamo. Ripartiamo, per esempio, dal concreto supporto ai consultori familiari, dal sostegno alle cure palliative e dal rafforzamento degli Hospice su tutto il territorio.
Occorre dialogare senza prevaricare, al fine di trovare un senso comune ( un consenso) su alcuni basi irrinunciabili: “ c’è bisogno di un allargamento di orizzonti e di un controllo reciproco degli argomenti, di un confronto tra sensibilità diverse, attente a riconoscere le ragioni degli altri “ ( Stefano Canestrari, Principi di biodiritto penale, il Mulino, 2015, Bologna); non basta un si o un no per prendersi cura di chi, nella sofferenza o nella disperazione, arriva all’estremo di chiedere di poter morire perché non vuole essere ( o sentirsi) “un peso” per le persone vicine seppur, nel profondo, vorrebbe poter continuare a vivere proprio attraverso il sostegno, le cure e l’affetto di queste persone. Determinate patologie ( e le relative sofferenze) sono certamente irreversibili; ma anche la scelta di morire lo è, non si può più tornare indietro per manifestare un consenso diverso rispetto a quello precedentemente dato a colui che è stato di aiuto nell’atto suicida o che, addirittura, ha compiuto il gesto omicida nei confronti del consenziente.