Un segno di rinascita

La visita di Benedetto XVI al carcere romano di Rebibbia, tra commozione e focalizzazione dei problemi del mondo carcerario
Papa a Rebibbia

Pathos e logos. Tra queste due corde, l’emozione e la razionalità, si dipana la visita del papa a Rebibbia. È la seconda volta che Benedetto XVI entra in una casa circondariale, dopo la visita al carcere minorile di Casal del Marmo nel 2007. Il solo fatto di varcare la soglia, stringere le mani con calma ai 300 detenuti che lo attendevano nella Capella “Dio padre nostro”, entrare in relazione per rompere l’isolamento dei carcerati, ha un grande significato, difficilmente spiegabile, per chi vive recluso e si sente abbandonato dalla società. Il papa lo ha fatto con il suo stile mite, dolce e paterno.

 

Anche nel carcere romano di Rebibbia vivono gli stessi problemi dei carceri di tutta Italia: il sovrappopolamento con 1740 detenuti su una disponibilità di 1100, mentre sul territorio nazionale siamo a quota oltre 68 mila a fronte di 45 mila posti branda. Una situazione insostenibile che annulla la dignità umana, favorisce l’alienazione, la depressione con il disagio espresso dalle fredde cifre dei suicidi, oltre 60 quest’anno, che si verificano più frequentemente al momento dell’ingresso in carcere e in prossimità dell’uscita. Proprio perché lo shock di entrare in una cella in cui si sta fino a 20 ore al giorno, con i turni per stare in piedi, con il doppio della capienza consentita, anche 6 in celle da tre, ti toglie la speranza. La stessa che svanisce quando si sta per uscire. La società ha marchiato a vita la dignità di un ex detenuto a cui nessuno darà più lavoro né futuro.

 

Nella consapevolezza di questo scenario il papa ha subito centrato, nel suo discorso prima di rispondere alle domande di sei detenuti, il punto cardine della questione quando ha detto: «So che il sovraffollamento e il degrado delle carceri possono rendere ancora più amara la detenzione: mi sono giunte varie lettere di detenuti che lo sottolineano. È importante che le istituzioni promuovano un’attenta analisi della situazione carceraria oggi, verifichino le strutture, i mezzi, il personale, in modo che i detenuti non scontino mai una “doppia pena”; ed è importante promuovere uno sviluppo del sistema carcerario, che, pur nel rispetto della giustizia, sia sempre più adeguato alle esigenze della persona umana, con il ricorso anche alle pene non detentive o a modalità diverse di detenzione». Perfettamente in linea, del resto con la Costituzione italiana, dove nell’articolo 27 si dice, tra l’altro che. «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità» e che «le pene (…) devono tendere alla rieducazione del condannato». Cosa che oggi non avviene per le condizioni disumane dei carcerati e per il tasso di recidività pari quasi al 70 per cento.

 

Molto sentito e commovente l’intervento, poco prima del discorso del papa, del ministro della Giustizia, Paola Severino, che ha preferito parlare con le parole di una lettera di un detenuto siciliano Alfio Diolosa, che si trova recluso nel carcere di Cagliari. «Se aiuteremo – scrive il detenuto – la barca di nostro fratello ad attraversare il fiume, anche la nostra barca avrà raggiunto la riva. Mettersi in contatto con persone recluse nelle carceri, o internate negli ospedali psichiatrici giudiziari vuol dire mettersi in contatto con un mondo di sofferenza, solitudine, umiliazione, che non deve essere ignorato, dimenticato a chi chiede ascolto, comprensione, rispetto e soprattutto spirito fraterno. Quando si riesce a dare tutto questo senza giudicare, senza pregiudizi o falsi moralismi, ma cercando solo di scoprire l’umanità di ognuno, facendo distinzione tra errore e errante, allora il dialogo si apre e si illumina come una finestra verso la luce».

Il ministro ha anche sottolineato come «la custodia cautelare in carcere deve essere disciplinata in modo tale da rappresentare una misura veramente eccezionale», mentre oggi gran parte dei detenuti italiani sono imputati in attesa di giudizio.

 

A seguire il discorso del papa, sei domande fatte dalla viva voce dei detenuti, scelte tra le centinaia che sono arrivate al cappellano di Rebibbia, don Sandro Spriano. Il papa risponde a braccio, con convinzione e personalizzando le risposte. A Rocco che gli chiedeva se il suo gesto di venire a visitarli avrà una ripercussione politica il papa ha detto che «sono venuto soprattutto per mostrarvi la mia vicinanza ma è anche un gesto pubblico che ricorda ai nostri concittadini che ci sono difficoltà nelle carceri italiane». Il papa ha anche espresso la speranza che «il nostro Governo e i responsabili faranno il possibile per aiutare questa situazione, realizzando una giustizia che aiuti a tornare nella società».

Un cittadino straniero, Omar, ha chiesto al papa come restare aggrappati a Dio come ad un cavo elettrico. Il papa ha ricordato il motivo della sua visita perché c’è «un’identificazione di Gesù con i carcerati», e come la loro preghiera e quella di tutti i cristiani ci tiene tutti in un’unica cordata per andare a Dio. È stata, poi, la volta di Roberto, latitante per una condanna per contrabbando di sigarette da oltre 20 anni in Germania, che è rientrato in Italia per vedere il suo settimo figlio. Rientro fatale che lo ha portato in carcere. Per questo chiede di poter rivedere suo figlio e mostra anche la foto al papa. «Anzitutto felicitazioni – ha risposto il papa –, questo è un dono di Dio. Naturalmente non conosco i dettagli del suo caso, spero con lei che possa tornare quanto prima alla sua famiglia. Prego e spero che lei possa avere quanto prima in braccio sua figlia e abbracciare sua moglie e costruire una bella famiglia per contribuire del futuro dell’Italia».

L’intervento di Federico, sieropositivo, più che una domanda è una preghiera e un grido di dolore perché quelli come lui, malati e carcerati, si sentono dei subumani, sottoposti a critiche feroci. «Lei ha detto – è intervenuto Benedetto XVI – che si parla in modo feroce di voi. Purtroppo è vero. Alcuni parlano in modo feroce, parlano in modo feroce anche contro il papa e tuttavia andiamo avanti. Io farò quanto posso per invitare tutti a pensare in modo giusto e umano, non dispregiativo, pensando che ognuno può cadere. Tutti devono aver sempre rispettata la propria dignità perché possano trovare il coraggio di rialzarsi e ricominciare». Interessante anche la riposta a Gianni che chiedeva lumi sulla confessione. «Se lei prega che Dio lo perdoni – ha spiegato il papa – Dio perdona. Il peccato ha sempre anche una dimensione sociale, orizzontale: anche se forse nessuno lo sa ho sporcato la comunione della Chiesa, e ciò esige che sia assolto anche a livello della comunità e questa seconda dimensione esige il sacramento».

Ad un carcerato del Benin il papa ha duramente criticato il consumismo, «in Europa – ha detto – siamo preoccupati di comprare, ma questo ci allontana dall’esperienza che Dio c’è e ci rende felici». Nel suo recente viaggio In Benin, Benedetto XVI, sebbene la povertà, le malattie, la violenza, siano problemi da risolvere, ha avvertito «la gioia di vivere, di essere una creatura umana, amata da Dio».

 

La mattinata si è conclusa con la preghiera di un detenuto, Stefano, che ha chiesto a Dio di ricordarsi di lui, la recita del Padre nostro. Il papa ha anche assaggiato alcuni dolci preparati in carcere ed ha benedetto un cipresso da lui donato a ricordo di questa visita e delle preghiere che continueranno a recitare gli uni per gli altri. Viva l’emozione non solo nei detenuti, ma anche nel personale che lavora in carcere. «Vederlo è stato come rinascere». È stato il commento di molti.

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