Un regista e una povera Lucia!

La rilettura troppo moderna delle opere liriche rischia di trasformarsi in prodotti dal sapore cinematografico che sfociano nella violenza e nell'orrore. Il caso della Lady of Lammermoor
san carlo

L’opera è quella di Gaetano Donizetti data al San Carlo di Napoli nel 1835 e da allora diventata simbolo del teatro musicale, o meglio, in questo caso, di “opera lirica” di sensibilità romantica. Tratta dal testo di Walter Scott, The Lady of Lammermoor, essa è una vetta del belcanto italiano e dell’approccio romantico all’amore: due giovani innamorati, impossibilitati ad amarsi a causa di un terzo incomodo, il “cattivo”, in genere un baritono. Non sembra vi sia altra strada che la morte, così le donne si ”perdono” nella follia o nel sonnambulismo, gli uomini si suicidano e rimane solo il “cielo” come luogo dove ricongiungersi alla fine. Il dramma violento è sublimato dall’eternità dell’amore che continua oltre il tempo.

 

Accade così, con opportune variazioni sul tema, in Lucia e Anna Bolena di Donizetti, in Sonnambula e Puritani di Bellini, in Rigoletto e nel Trovatore di Verdi.

 

In diretta dal Covent Garden di Londra, lunedì 25 si è assistito in 125 cinema europei – una iniziativa davvero interessante – alla rappresentazione del “dramma tragico in due atti” della fanciulla di Lammemoor, innamorata di nascosto di Edgardo, mortale rivale del fratello Enrico. Quest’ultimo la obbliga a sposare il politico Arturo con l’inganno, la sorella impazzisce, uccide lo sposo e poi muore. Di conseguenza, il povero Edgardo si suicida, sperando di rivedere in cielo la “bell’alma innamorata”.

 

A fronte di un dramma tra clan scozzesi alla fine del secolo XVI – e non XVII come ha detto la sorridente giornalista presentatrice -, di nebbie misteriose, di apparizioni di fantasmi di donne uccise, di temporali e di antri sepolcrali, oltre che di lunghissime scene di pazzia, di duelli e di litigi furiosi, sta una delle più belle musiche in assoluto del teatro. Tale da sublimare le passioni violente, renderle credibili con la sola forza della melodia talmente intensa, struggente e autentica che l’opera potrebbe venire ascoltata ad occhi chiusi e il risultato di poesia, ma anche di verità scenica ,non ne sarebbe toccato. Quando si tratta di capolavori succede così, per esempio accade con il Barbiere o la Traviata o la Bohème.

 

Daniel Oren, direttore di lungo corso e dal carattere vulcanico, ha impresso all’opera una tinta appassionata al grado massimo sia negli accompagnamenti elettrizzanti , sia nei cori rallentati (“Oh qual funesto avvenimento”, atto terzo), sia nel drammatico quartetto “Chi mi frena in tal momento”, come nella infinita scena della follia, dove Lucia, sul timbro  lunare della glassarmonica esplora i limiti del surreale e dell’onirico, quasi a forare il cielo. La parentela con il celebre Delirio di Ermengarda dall’Adelchi di Manzoni è stretta, ma qui Donizetti con la musica va oltre, supera la colpa nella pazzia dell’amore.

 

Il canto in quest’opera è (quasi) tutto, dice tutto, non ci sarebbe troppo bisogno di sottolinearlo con una vivacità d’azione eccessiva.

 

La regista Katie Mitchell purtroppo sembra aver riletto l’opera in chiave espressionista più che romantica, trasportandola nell’800 (e questo non è un problema) ed estremizzandola con forzature di sapore cinematografico violento ed orrorifico che fanno pensare. Lucia ed Edgardo fanno l’amore già appena si incontrano, lei resta incinta e si tormenta quando il fratello entra nel bagno (più tardi tenterà di schiaffeggiarla), ha un aborto a quanto pare e si mostra insanguinata anche per questo motivo nella follia… è accompagnata da fantasmi, tipo morti viventi, in alcune scene. A volte si ha l’impressione che coro e cantanti non capiscano quello che stanno dicendo o lo sorvolino.

 

Mancano sia il senso elegiaco così presente nell’opera, sia soprattutto il sentimento della pietas che costituisce il cuore della ispirazione donizettiana di sempre, lo sguardo compassionevole del musicista sull’infelicità delle sue creature, in cui pare non trovi posto la rappresentazione londinese.

 

La violenza sui testi sembra ormai una normalità nei teatri d’opera da parte dei registi.

 

La povera Diana Damrau, vocalmente molto brava, ma alla fine sfinita con un sovracuto urlato, si è dimostrata una attrice  consumata anche per la resistenza fisica e psicologica, come pure il tenore Charles Castrovo ed il baritono Ludovic Tézier.

 

Ma, spiace dirlo, l’operazione Covent Garden non pare soddisfacente, anzi. Per carità, non si tratta di tornare all’antico, ma di equilibrio e soprattutto di rispetto delle intenzioni del compositore, del linguaggio di una determinata epoca, della preminenza della musica in questo tipo di opere. È un fatto di inculturazione e di cultura. Ci si domanda se alcuni registi o registe – nel caso c’era una valenza prefemminista troppo insistita, Lucia sembrava in alcuni momenti una ribelle sessantottina – la amino davvero questa musica o non la usino per dar gloria a sé stessi. Speriamo di no. Dispiacerebbe molto continuare a veder stravolgere dei capolavori assoluti.

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