Un presidente donna per fermare la violenza
Le notizie dal Centrafrica arrivano soprattutto dai religiosi che vedono le loro missioni attaccate o trasformate in campi profughi d’emergenza, dove sono chiamati a gestire quasi cinquemila persone. La presa di potere della fazione Seleka, nel marzo 2013, con la proclamazione a presidente della Repubblica del suo capo, Michel Am-Nondokro Djotodia, aveva provocato la nascita di una fazione avversa denominata Anti-Balaka, che dapprima a colpi di machete e poi con armi più sofisticate ha attaccato i gruppi detentori del potere, provocando a sua volta morte e distruzione. Abbiamo seguito l’evolversi delle vicende e l’intervento della Francia per sedare il conflitto senza però grandi risultati, fino al 20 gennaio, quando il presidente Djotodia si è dovuto dimettere perché incapace di gestire i Seleka e riportare ordine nel Paese.
Il 21 gennaio una specie di Parlamento provvisorio ha eletto il sindaco di Bangui, Catherine Samba-Panza, presidente della Repubblica e tutti i centrafricani hanno approvato la scelta, compresi Anti-Balaka e Seleka – ci scrive padre Jean-Claude Nzembele della congregazione Aposotoli di Gesù crocifisso –. La gente, felice, è scesa in strada per manifestare la gioia, ma la violenza non si è fatta attendere seminando morte in tanti quartieri della città». I militari presidiano la città e gli organismi della politica cominciano a prender forma, ma i morti non finiscono.
Continua padre Jean-Claude: «Dopo l'attacco degli Anti-Balaka del 5 dicembre scorso la nostra missione ha accolto più di 4500 persone censite, senza contare tutti quelli che vengono solo a dormire, per paura di essere sorpresi nella propria casa durante la notte. Per più di una settimana sono rimasti senza cibo, ma la missione riusciva almeno a fornire l'acqua. I nostri missionari hanno chiamato con insistenza le agenzie delle Nazioni Unite che hanno portato qualcosa da mangiare per permettere alla gente di sopravvivere. Questa gente dorme all’interno della missione nelle aule della nostra scuola, nella mensa scolastica e, la maggioranza, all'aperto. Ogni tanto portano loro da mangiare, ma in realtà è solo il necessario per sopravvivere. La missione, che è già in grandissima difficoltà, è riuscita solo ad offrire qualche volta dei pasti interi ai bambini e agli anziani. Ciò è stato possibile grazie alle offerte che abbiamo ricevuto da alcuni amici italiani. Siamo veramente impossibilitati a poter fare di più».
La missione intanto si è trasformata anche in un centro di soccorso sanitario, dove un medico e alcuni volontari prestano le cure di prima emergenza, mentre con l’ausilio della Croce Rossa internazionale si è riusciti a portar via i feriti più gravi. La scorta dei medicinali della farmacia però è finita e il personale medico, venuto regolarmente per assistere gli ammalati, non riesce a intervenire con la stessa efficienza e tempestività dei primi giorni. Si vigila sull’igiene perché il rischio di malattie ed epidemie è sempre dietro l’angolo.
La scuola della missione è chiusa da due mesi, perché diventata un dormitorio, e i bambini non studiano più e si aggirano tra i profughi con tanti rischi. «I nostri sacerdoti si trovano a gestire una folla di fuggiaschi – conclude il religioso – sono vicini alla gente per portare consolazione e incoraggiamento a chi ha perso persone care e tutti i propri beni, sollecitano gli organismi internazionali per intervenire nella missione, ma si vede che questi non ce la fanno perché sono tre settimane che non arriva più nulla».
«Non dimenticateci», supplica padre Jean Claude, mentre l’appello della presidente a deporre le armi e a cominciare un dialogo di pace sembra inascoltato, soprattutto nelle zone al confine con il Ciad, dove i ribelli si stanno rifugiando per scampare a processi e ritorsioni.
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