Un premio al coraggio della quotidianità
Presentata alla Farnesina la campagna per il Nobel per la pace 2011 alle donne africane. Ad illustrare il perché, la voce delle dirette interessate che hanno raccontato le loro storie
Il tema dei piedi e del camminare torna continuamente: «Vogliamo presentare un’Africa in piedi»; «Sono i piedi delle donne che fanno camminare l’Africa»; «Le donne africane camminano a piedi nudi e a testa alta». E soprattutto «camminano sempre insieme». Per questo la campagna L’Africa che cammina merita un Nobel (Noppaw), per l’attribuzione del prestigioso premio per la pace alle donne africane, vuole far sì che per la prima volta questo venga riconosciuto non a una singola persona, ma a una collettività: soprattutto a quella «miriade di donne anonime» che ogni giorno, nella loro terra o nei Paesi dove sono emigrate, «non si limitano a cercare di sopravvivere», ma «con la loro determinazione permettono all’Africa di rimanere in piedi».
Ci scusiamo per aver superato il livello di guardia con i virgolettati: ma non c’è mezzo migliore delle parole di chi la realtà africana l’ha vista sul serio – o perché africano, o perché impegnato nella cooperazione internazionale – per spiegare il perché di questa campagna, presentata per il 2011 (la precisazione è d’obbligo, perché venne lanciata per la prima volta nel 2008 a Dakar) il 25 maggio alla Farnesina. Ad intervenire, oltre al presidente del Cipsi Guido Barbera, il coordinatore di ChiAma l’Africa Eugenio Melandri – associazioni promotrici dell’iniziativa per l’Italia – e a rappresentanti di enti e istituzioni, sono state le dirette interessate: ossia le donne africane stesse, giunte dai loro Paesi di origine o da varie regioni italiane per portare la loro esperienza. Perché, come ha sottolineato l’ex vice ministro degli Esteri Patrizia Sentinelli, «questo non è un Nobel alle intenzioni, ma per il lavoro che queste donne hanno fatto e fanno qui ed ora». Un lavoro ancora sconosciuto, che la campagna vuole portare alla luce.
Donne come la teologa camerunense Hélène Yinda, che dopo aver lavorato per anni al Consiglio Ecumenico delle Chiese a Ginevra è rientrata nel suo Paese per aprire un centro di teologia popolare; come l’egiziana Amany Asfour, membro del Consiglio per l’economia dell’Unione Africana, che da lì porta avanti progetti per aiutare le sue “sorelle” a diventare imprenditrici: «perché le donne in Africa sono presenti in tutti i settori dell’economia, producendo il 70 per cento degli alimenti, ma mai proprietarie della loro attività». E spesso neppure pagate: come ha fatto notare Sylvie Ndongmo, presidente dell’ong camerunense Fem.net, ad una serie di interviste condotte per sapere se le donne di una certa zona avessero o meno un impiego la risposta era sempre «certo che no: dobbiamo badare ai figli, coltivare i campi, portare le merci al mercato e venderle, preparare i mattoni per gli edifici del villaggio. Insomma, siamo disoccupate». Per questo la sensibilizzazione sulle questioni politiche e sociali è un altro dei fronti su cui le ong si battono: hanno avuto il merito di rendere pubbliche questioni «un tempo tabù, come le mutilazioni genitali, la tratta delle schiave, gli stupri etnici, ma anche l’alta mortalità materna», e di promuovere la condivisione di buone pratiche.
Tra le storie raccontate ha colpito quella della congolese Bernadette Muongo, nata e cresciuta nella martoriata provincia del Kivu. Sposata ad un capovillaggio, ha usato questa sua posizione per mediare i conflitti tra Hunde e Hutu sin dai tempi della guerra in Rwanda nel 1991, organizzando un movimento femminile per accogliere i profughi e condurre i negoziati tra i leader delle delegazioni dei gruppi etnici. Ha poi istituito una commissione permanente per la pacificazione, mossa che – in quanto unico membro donna dell’organismo – le è costata il ripudio da parte del marito. Ma intanto la voce di queste donne era arrivata fino agli organi di governo: «Abbiamo incontrato il presidente Kagame e siamo andate fino in Sudafrica, dove si stavano tenendo i negoziati, ad organizzare una marcia per chiedere una fase di transizione». Al riesplodere del conflitto nel 2006 sono state di nuovo loro ad incontrare prima i capi delle tribù e poi il presidente ruandese per giungere ad un accordo, nonché delegazioni del congresso Usa, della Casa Bianca, dell’Unione Europea, del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Un lavoro per la pace che non si svolge solo a livello istituzionale ma anche alla base, con incontri e scambi tra donne che sono state vittime di stupri, genocidio e violenze. Per questo la Muongo è stata insignita del premio “donna congolese coraggiosa” dall’ambasciatore statunitense.
Un coraggio che accomuna tutte le donne del continente: come ha raccontato Fatima Lmeldeen, del Sudanese Woman Association Forum on Darfur, in quella regione tristemente nota per le violenze accadute hanno costruito con le loro mani dei centri per l’educazione dei bambini, avviato progetti di microcredito e microimprenditoria agricola, e partecipato alle conferenze regionali per la pace. Ma anche le donne di Bukavo (Congo), che, come ha raccontato Melandri, hanno trovato la forza di marciare a seno scoperto al grido di «noi non allattiamo i nostri figli per la guerra».
Ma non è solo in patria che le donne africane dimostrano la loro determinazione: tra le presenti c’era Cécile Kyenge Kashetu, congolese, consigliere provinciale a Modena, e Angela, presidente dell’associazione delle donne di Capo Verde, in Italia da 33 anni. I messaggi che hanno voluto lanciare alle loro “sorelle” sono stati due accorati appelli: «Noi sosteniamo il vostro lavoro da qui – ha affermato la Kashetu – ma se vogliamo la pace dobbiamo riconciliarci con la nostra terra, ritrovare l’equilibrio che è stato rotto». Perché la cosa più bella, ha proseguito Angela, «è stato sentire i giovani del mio Paese dire che per loro emigrare era sempre stato un sogno, ma ora hanno la possibilità di rimanere lì, grazie ad alcuni progetti che abbiamo avviato».
Un Nobel quindi che, per quanto forse solo “strumentale” a far conoscere l’impegno di queste donne, assume un significato di «giustizia» – per dirla con la Ndongmo e di testimonianza. Intanto loro si sentono comunque come se avessero già vinto: per questo per il 10 dicembre è stato fissato il Walking Africa day, per festeggiare queste donne al di là di chi sarà stato il destinatario del premio.
Per informazioni sulla campagna e firmare la petizione, www.noppaw.org