Un popolo muore nel silenzio
Hanno celebrato la messa di Natale il 23 dicembre in una cappella, nel primo pomeriggio, perché il rientro a casa fosse sicuro. L’elettricità ad Aleppo, grande metropoli industriale siriana, è un miraggio che compare nelle ore più impensate, raramente però dopo il tramonto; quindi circolare in strada può significare rischiare la vita. Questo sparuto gruppo di cristiani, vicini al Movimento dei focolari, resiste ancora, forte della fede e dell’amore per il proprio Paese, per il lavoro che cercano di mantenere in una città a brandelli, dove mancano le medicine per i bambini, dove l’acqua, bene primario, scarseggia per i bombardamenti alle tubature, un colabrodo molto difficile da riparare. Scarseggia anche il pane nella Siria di Assad, considerata da sempre granaio del Medio Oriente. I silos con le riserve sono diventati obiettivi di guerra, alcuni sono stati sequestrati, ma sono i campi a non poter più essere coltivati e se oggi ancora si sopravvive, la paura della carestia cresce: le coltivazioni sono progressivamente abbandonate, non si seminano e non si irrigano e quindi la fame non è uno spettro distante, ma una realtà con cui fare presto i conti.
L’opposizione pacifica Tra questa gente ci sono ancora intellettuali, persone colte, docenti e commercianti, industriali che non vogliono lasciare la città perché i loro pochi beni non finiscano rasi al suolo o confiscati dal Fronte di liberazione: vogliono restare perché vogliono scrivere la parola fine ad una guerra ritenuta assurda. «Qui il popolo vuole continuare a vivere – ci dicono –. Ci sentiamo abbandonati dalle istituzioni internazionali. I massacri che vengono realizzati dal regime sono compiuti con la stessa efferatezza da chi si spaccia per liberatore». Eppure negli occhi di tutti noi c’è ancora la strage di bambini avvenuta in un panificio, qualche giorno fa e ordinata, secondo i media, dall’esercito di fedelissimi al regime. E quella di oggi che ha colpito alcune famiglie, sempre in un panificio.
Le notizie manipolate? Sono assolutamente dubbiose alcune delle persone raggiunte al telefono. Rimandano ad alcune criticità, che abbiamo già più volte evidenziato, ma che ora appaiono quasi certezze: «Come era possibile aver piazzato in anticipo delle telecamere in quei luoghi se gli attacchi non erano prevedibili?». È ormai stratagemma tipico di queste milizie, a cui sono stati affiliati mercenari e simpatizzanti di al-Qaeda, concentrare armi e truppe in luoghi frequentati dai civili che diventano in questo modo facili bersagli dell’esercito, ma anche dei ribelli. «Peccato – commentano – che l’Occidente riceva notizie solo a senso unico e solo dalle grandi agenzie, visto che i satelliti delle tv siriane sono stati bloccati. È chiaro che il presidente Assad sta lottando anche nella convinzione che, se il regime cadesse e con esso tutta l’organizzazione statale e di difesa, senza la prospettiva reale e fondata della presa di potere da parte di un’opposizione volenterosa di riconciliare il Paese e garantirne le libertà fondamentali, gli alawiti, gruppo etnico a cui appartiene tutta la sua famiglia, rischierebbe di essere soggetto ad un vero massacro».
E i cristiani? Spesso, nei Paesi dell’area mediorientale, sono accusati di appoggiare il regime di turno, per paura di ritrovarsi schiacciati da un governo fondamentalista islamico che metterebbe a rischio la loro stessa esistenza. Questo non significa però, nel caso specifico della Siria, che tra questi cristiani non ci fossero oppositori di lunga data della politica del presidente Assad, che per anni hanno lavorato a politiche di riforma che consentissero una transizione pacifica. «Purtroppo l’Occidente li ha ignorati e ha preferito consegnare alle armi e non al dialogo il vero cambiamento della Siria», continuano a raccontare i nostri amici. Tanti cristiani stanno lasciando il Paese, alcuni vivono da prigionieri nei villaggi vicino alla frontiera turca dove il territorio è in mano all’opposizione armata. Alcuni religiosi confermano la poca tolleranza nei confronti della comunità cristiana e la sofferenza cui è sottomessa quella popolazione industriosa e pacifica. È certo anche che la divisione tra le diverse confessioni non è stata di aiuto in questo tragico momento del Paese. La cristianità non è sempre riuscita ad esprimersi in maniera tempestiva con un unico appello e questo ha reso debole anche le offerte di collaborazione per un piano di pace.
Martiri per soldi o per la causa? L’aeroporto di Aleppo, intanto, è stato chiuso ai voli civili, che sono diventati i nuovi obiettivi dei cecchini del Jubhat Al Nusra (il cosiddetto “Fronte della vittoria”). Capeggiati talvolta da comandanti di appena 25 anni, sono convinti che Dio li abbia investiti di una missione che non include convivenza pacifica tra tutte le etnie e le religioni, ma solo supremazia schiacciante, da raggiungere a qualsiasi prezzo. Per questo sono disposti a tutto. Tra i giovani, poi, non pochi hanno accettato di entrare nell’Esercito di liberazione, più per soldi che per credo. È di queste settimane la storia di due fratelli che si sono arruolati rispettivamente uno nell’esercito regolare e l’altro tra le fila delle milizie di liberazione. Il secondo lo ha fatto per soldi, per povertà, ma è morto dopo pochi giorni e l’altro fratello si è inventato tutti gli espedienti per partecipare al funerale, sfidando anche le regole del suo incarico e il sentire comune che tacciava il parente di tradimento. Si conserva l’umanità e ci si aggrappa con fede alla speranza. Si implora la pace con forza e disperazione: i siriani chiedono con insistenza di non restare soli, di non essere lasciati morire nel silenzio assordante del mondo.
Il Time out di Città Nuova Per questo Città Nuova aderisce al “Time Out”: un minuto di silenzio e di preghiera che alle 12, ora italiana, ferma ogni attività per chiedere il cessate il fuoco in Siria e negli altri Paesi dove i conflitti continuano a portare morte. L’iniziativa promossa dai giovani del Movimento dei focolari vedrà le pagine del nostro quotidiano online aprirsi, a mezzogiorno, alle voci della Siria, per rompere il silenzio sulla reale vita che la popolazione sta vivendo.