Un popolo di mistici

La fede come esperienza di Dio personale ed ecclesiale. Il contributo della spiritualità di comunione.
Diamante

È passato un anno da quando il papa Benedetto XVI, in uno dei primi paragrafi dell’enciclica programmatica del suo pontificato, Deus caritas est, ha scritto qualcosa che mi sembra fondamentale sul tema che mi propongo di sviluppare: “Abbiamo creduto all’amore di Dio: così il cristiano può esprimere la scelta fondamentale della sua vita. All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva” (n. 1).

L’urgenza di una fede che si fa esperienza personale 

Da alcuni anni si sente la necessità di non perdere di vista la dimensione esperienziale della fede cristiana. Perché il cristianesimo, o è un cammino pienamente umano e pienamente di Dio, o è un’esperienza che nasce dalla fede ricevuta e che ha la capacità di produrre vita, oppure si converte di fatto in una ideologia in più, anche se in questo caso si tratta di una ideologia religiosa, nella quale Dio ha un posto più o meno importante dentro il sistema di idee, ma non molto di più.

D’altra parte, oggi constatiamo il fatto che, prima di una certa perdita di Dio nel nostro mondo, soprattutto quello occidentale, da alcune decadi gruppi di persone, anche di formazione e tradizione cristiana, sentono un certo rimpianto della ricerca vitale e si lanciano verso una certa ricerca religiosa o pseudo-religiosa che si realizza molte volte fuori degli ambiti della fede e della comunità cristiana.

Nel documento pontificio “Gesù Cristo portatore dell’acqua viva. Una riflessione cristiana sul New Age” si descrive questa situazione attuale. Parlando della cosiddetta “Nuova Era”, si afferma qualcosa che è valido anche per molte altre ricerche attuale: “Il successo del New Age lancia una sfida alla Chiesa. Le persone sentono che la religione cristiana non offre loro – o forse non gli ha mai dato – ciò di cui hanno veramente bisogno. La ricerca che spesso conduce le persone al New Age è un desiderio autentico di spiritualità più profonda, di qualcosa che tocchi il loro cuore, e di un modo per conferire un senso a un mondo confuso e spesso alienante. C’è un tono positivo nelle critiche che il New Age muove al “materialismo della vita quotidiana, della filosofia e anche della medicina e della psichiatria; al riduzionismo che si rifiuta di prendere in considerazione le esperienze religiose e soprannaturali; alla cultura industriale dell’individualismo sfrenato, che insegna l’egoismo e non si preoccupa degli altri, del futuro e dell’ambiente”. A creare problema sono le risposte alternative del New Age alle questioni esistenziali. Se la Chiesa non vuole essere accusata di essere sorda ai desideri delle persone, i suoi membri devono fare due cose: radicarsi ancor più saldamente nei fondamenti della propria fede e ascoltare il grido, spesso silenzioso, che si leva dal cuore delle persone e che, se non viene ascoltato dalla Chiesa, le porta altrove. I fedeli devono essere esortati a unirsi più intimamente a Gesù Cristo per essere pronti a seguirlo, poiché Egli è la via autentica verso la felicità, la verità su Dio e la pienezza di vita per tutti gli uomini e per tutte le donne in grado di rispondere al Suo amore”1. 

Nel Nuovo Testamento

Come testimonia tutto il Nuovo Testamento, sin dal principio il cristianesimo ha visto se stesso come un cammino di vita ed esperienza di quelle realtà che costituiscono il nucleo della fede comunicata, ricevuta e accettata2. Sono testimoni di questo fatto, per esempio, i primi versetti della Prima Lettera di Giovanni: “Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita (poiché la vita si è fatta visibile, noi l’abbiamo veduta e di ciò rendiamo testimonianza e vi annunziamo la vita eterna, che era presso il Padre e si è resa visibile a noi), quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi. La nostra comunione è col Padre e col Figlio suo Gesù Cristo. Queste cose vi scriviamo, perché la nostra gioia sia perfetta” (1 Gv 1, 1-4).

Paolo, da parte sua, nel momento che invita ad avere un cuore aperto verso tutto quanto è nobile e bello (cf. Fil 4, 8-9), mette in guardia anche sulla necessità di fare sempre un discernimento (cf. 1 Ts 5, 19-22; Ef 5, 10), perché non ogni esperienza né ogni spirito viene da Dio, come dice la Prima Lettera di Giovanni (cf. 4, 1-3). 

Alcune lezioni dalla storia 

Per differenti ragioni, la relazione tra esperienza individuale o personale ed esperienza ecclesiale lungo la storia cristiana non è stata sempre facile. Dai primi secoli fino ai nostri giorni è stata segnata da momenti di dubbio e sfiducia, più o meno forti, più o meno lunghi. Tra le correnti e i gruppi che l’hanno motivato possiamo segnalare, nei primi secoli, certe correnti gnostiche, per esempio; come pure, tra gli altri, l’encratismo, il montanismo. Successivamente, nel medioevo, il gioacchinismo, i càtari e albigesi, i figli del libero spirito, i “fraticelli”, e alcuni gruppi di beghine e begardi. Infine, a partire dal secolo XVI, il protestantesimo con il suo libero esame, gli alumbrados e recogidos, il quietismo. E nei secoli XIX e XX, il modernismo. Attualmente, d’altra parte, non siamo nient’affatto esenti da certi movimenti pseudognostici, di ispirazione più o meno cristiana, come la stessa New Age.

L’origine principale di questa sfiducia, quando non di condanna esplicita in molti casi, è stata quasi sempre la stessa: il fatto di considerare la propria elaborazione dottrinale e l’esperienza personale, o l’esperienza del proprio gruppo, come criterio ultimo e superiore a quello della fede e dell’esperienza della comunità ecclesiale, con delle conseguenze importanti, a volte, per la visione che si ha e si offre della stessa fede cristiana. Quando però i cristiani si sono mostrati aperti al discernimento ecclesiale, generalmente tutto ha concorso al maggior arricchimento della comprensione della stessa fede e della sua esistenza vitale in tanti figli della Chiesa.

Sul necessario discernimento fraterno ed ecclesiale di ogni esperienza di Dio, scrive Giovanni della Croce: “Perciò Cristo nel Vangelo dice: Ubi fuerint duo vel tres congregati in nomine meo, ibi sum ego in medio eorum: Dovunque si troveranno due o tre persone congregate per attendere a ciò che torna a maggior gloria e onore del mio nome, ivi mi troverò anch’io in mezzo a loro; cioè rischiarando e confermando nei loro cuori le divine verità. È da notarsi che non dice: dove sarà uno solo, ivi sarò anch’io; ma dove si trovano almeno due, per farci intendere che Egli non vuole che alcuno da sé solo dia giudizio delle cose divine che riceve, né si assicuri e confermi in esse, senza il consiglio e la regola della Chiesa e dei suoi ministri; poiché Iddio non si fa presente a chi è solo, non gli rischiara la verità, non gliela imprime nel cuore, e quegli perciò se ne resterà debole e freddo rispetto ad essa”3. 

I mistici 

Nella storia, senza dubbio, ci sono state tuttavia lunghe tappe nelle quali dentro la Chiesa si è accettato più facilmente il riferimento alla propria esperienza personale. È il caso, per esempio, di alcune donne mistiche del medioevo: Ildegarda di Bingen, Caterina da Siena, Angela da Foligno, Caterina da Genova, ecc. La stessa santa Teresa, già nell’epoca moderna, e con una forte vigilanza dell’Inquisizione contro qualsiasi deviazione al riguardo, lo fa quasi costantemente. Valga una frase del Libro della Vita come esempio di quanto detto: “Non dirò una cosa che non abbia molto sperimentato”4.

Secondo me, molte di queste donne mistiche si appellano all’autorità della loro esperienza in una misura maggiore degli uomini, i quali praticamente non lo fanno quasi mai, perché i mistici potevano riferirsi di più alle loro conoscenze teologiche.

In tutta l’epoca moderna, nonostante la sfiducia verso tutto ciò che sapeva di esperienza spirituale personale cadesse ogni volta di più come una pietra sepolcrale su tutti (l’accusa di quietismo stava sempre in agguato), nei trattati di vita spirituale e ascetico-mistici si accettava e si impostava il riferimento alle esperienze spirituali del passato. Tuttavia si arrivò a identificare l’esperienza spirituale con l’apparizione o la presenza di certi fenomeni straordinari, più esterni che interni. Con il risultato che tale riduzione ha impoverito l’idea stessa di esperienza spirituale e mistica.

Nella nostra epoca, e da alcuni anni in particolare, si sta recuperando nella teologia cristiana e spirituale il valore dell’esperienza spirituale. La sua importanza si propone in modo chiaro nelle stesse definizioni di teologia spirituale. A questo fatto hanno contribuito, tra le altre cose, lavori molto autorevoli come quello di J. Mouroux nella metà del secolo XX5, o affermazioni tanto significative come quella di Rahner negli anni sessanta, quando scrisse: “ Bisognerà dire che il cristiano del futuro o sarà un mistico, cioè, una persona che ha sperimentato qualcosa, o non sarà cristiano”6. 

Riscoprire l’esperienza ecclesiale 

Mi pare che oggi al discorso sull’esperienza spirituale si presentano due sfide molto importanti: la prima, integrare l’esperienza e il patrimonio del presente con l’esperienza e il patrimonio spirituale del passato; la seconda, armonizzare e completare meglio l’individuale con il collettivo ed ecclesiale.

A me piace parlare di “esperienza ecclesiale” piuttosto che di “esperienza qualificata”. Secondo questa impostazione, non tutte le esperienze spirituali, anche se cristiane, sarebbero degne di considerazione, ma soltanto quelle più qualificate7. La mia prospettiva, invece, vuole essere più ampia.

Definisco infatti “esperienza ecclesiale” come “la messa in pratica della fede cristiana lungo i secoli”. Dalle prime esperienze fino a quelle che facciamo nei nostri giorni, tutte fanno parte con uguale diritto di quel ricco patrimonio spirituale che è a nostra disposizione, come fonte di acqua viva capace di alimentare tanto il nostro pensiero come il nostro vivere. Il maggiore o minore valore di ciascuna di esse non si radica nella sua maggiore o minore antichità, ma nell’essere in maggiore o minor grado un’espressione del vangelo vissuto, ciò che si può manifestare anche in realtà presenti oggi nella nostra chiesa.

Tuttavia, bisogna che ci sia sempre una condizione affinché il vissuto di uno si converta o possa convertirsi in una fonte di esperienza spirituale per altri: la comunicazione della propria esperienza sia individuale che comunitaria. Questa comunicazione oggi non si fa soltanto attraverso gli scritti. In molte occasioni si fa solo con la parola. Ma è comunicazione della propria esperienza di Dio e di fede anche lo stile di vita che una persona sceglie. Nel passato ci sono stati cristiani illustri, santi canonizzati o no, che, per il loro stile di vita tanto attivo, non hanno avuto il tempo di scrivere qualcosa di quanto vissuto in modo più o meno sistematico. O forse non hanno sentito questa chiamata da parte di Dio8. 

Spiritualità di comunione 

Nel nostro tempo si parla molto di spiritualità collettiva, di spiritualità comunitaria, di spiritualità di comunione. Lo stesso Papa Giovanni Paolo II, nella Novo millennio ineunte ha consacrato ufficialmente quest’ultima espressione, che egli stesso già aveva utilizzato in altre occasioni nei suoi documenti, anche se non in una forma così solennemente affermata e applicata a tutta la Chiesa. Diceva all’inizio del 2001: “Fare della Chiesa la casa e la scuola della comunione: ecco la grande sfida che ci sta davanti nel millennio che inizia, se vogliamo essere fedeli al disegno di Dio e rispondere anche alle attese profonde del mondo” (n. 43).

In qualche modo già il Vaticano II era stato molto decisivo in questo senso quando parlato della Chiesa come “popolo di Dio”: “In ogni tempo e in ogni nazione è accetto a Dio chiunque lo teme e opera la sua giustizia (cf. Atti 10, 35). Tuttavia piacque a Dio di santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo, che lo riconoscesse nella verità e santamente lo servisse” (LG 9).

Non si è trattato però di un’affermazione isolata. Possiamo trovare questa stessa idea espressa in una forma molto simile in un altro documento conciliare, in riferimento alla “indole comunitaria della vocazione umana secondo il disegno di Dio”, della quale si dice quanto segue: “Dio, che ha cura paterna di tutti, ha voluto che gli uomini formassero una sola famiglia e si trattassero tra loro con animo di fratelli. Tutti, infatti, creati a immagine di Dio, ‘che da un solo uomo ha prodotto l’intero genere umano affinché popolasse tutta la terra’ (Atti 17, 26), sono chiamati all’unico e medesimo fine, cioè a Dio stesso. Perciò l’amore di Dio e del prossimo è il primo e più grande comandamento. Dalla sacra scrittura infatti siamo resi edotti che l’amor di Dio non può essere disgiunto dall’amor del prossimo ‘e tutti gli altri precetti sono compendiati in questa frase: amerai il prossimo tuo come te stesso. La pienezza perciò della legge è l’amore’ (Rm 13, 9-10; 1 Gv 4, 20). Ciò si rivela di grande importanza per uomini sempre più dipendenti gli uni dagli altri e per un mondo che va sempre più verso l’unificazione. Anzi il Signore Gesù quando prega il Padre, perché ‘tutti siano uno, come anche noi siamo uno’ (Gv 17, 21-22) mettendoci davanti orizzonti impervi alla ragione umana, ci ha suggerito una certa similitudine tra l’unione delle persone divine e l’unione dei figli di Dio nella verità e nella carità. Questa similitudine manifesta che l’uomo il quale in terra è la sola creatura che Dio abbia voluto per se stessa, non possa ritrovarsi pienamente se non attraverso un dono sincero di sé” (GS 24). 

Ekklesia 

La ekklesia è, dunque, per noi cristiani secondo il disegno di Dio l’ambito naturale e ordinario della realizzazione della vera e piena esperienza spirituale. La comunità cristiana è stata ed è, per tutti noi, il seno materno e la porta attraverso la quale entriamo e ci incamminiamo nell’esperienza del vangelo, nella piena esperienza di Dio in Gesù. In questo senso la Chiesa, comunità dei credenti in Cristo, non solo ci trasmette una fede, ma anche una vita, che ci è data gratuitamente attraverso i suoi sacramenti. Inoltre essa alimenta e illumina uno stile di vita coerente con la fede ricevuta che deve incarnarsi nelle circostanze e nelle sfide proprie di ogni tempo e di ogni persona.

Il termine mistagogia esprime bene ciò che voglio dire. Di fatto sta diventando di moda, anche se, mi pare, non se ne ricava tutto il vantaggio possibile. Se ne fa un uso in qualche modo parziale: per esempio, soltanto nell’ambito liturgico, o catechetico, oppure soltanto in riferimento al cammino individuale dell’esperienza di Dio.

Però, nemmeno la ekklesia, la Chiesa in quanto tale, né la sua propria esperienza è fine a se stessa, ma soltanto e sempre, attraverso di essa, al Dio di Gesù, al Santo in mezzo a noi. La gerarchia, i teologi, i mistici, le persone carismatiche, i maestri spirituali, ecc., non devono mai considerare se stessi come punto ultimo di riferimento, ma soltanto come mediazioni o mediatori, comunque necessari, di una vita che li trascende. Dio è sempre di più che ciascuno di essi. E, d’altra parte, per qualificata o eccelsa che sia un’esperienza spirituale, anche se cristiana, sempre avrà bisogno di quella degli altri per comprendere se stessa e per essere veramente cristiana. Ciò che non si situa dentro l’amore reciproco della comunione ecclesiale finisce di essere cristiano, almeno sotto questo aspetto. 

Conclusione 

La spiritualità cristiana è, nelle sue radici più profonde, non soltanto un cammino di comunione con Dio, ma anche un cammino spirituale comunitario. Questo presuppone l’inclusione di tutte le realtà individuali e personali di ogni essere umano e non la loro soppressione o esclusione. Per la fede cristiana è anche vero affermare che Dio ama ciascuna persona come se fosse l’unica che esiste al mondo9.

Come suggeriva il testo della Gaudium et spes, la chiave cristiana che ci aiuta ad articolare entrambe le realtà, inconciliabili secondo la prospettiva di alcune culture antiche e moderne, è la fede trinitaria. Nella Trinità non c’è disarmonia, ma una meravigliosa complementarietà tra gli elementi di Comunione e quelli più propri e specifici di ciascuna Persona divina. 

 

1 Commissione Pontificia per la Cultura e Commissione Pontificia per il Dialogo interreligioso, Gesù Cristo, portatore dell’acqua della vita. Un riflessione cristiana sul “New Age” (2003), n. 1.5 (cf. Vita consacrata, n. 103; Novo millennio ineunte, nn. 32-33).

2 Cf. Bruno Maggioni, Experiencia espiritual en la Biblia, in Nuevo Diccionario de Espiritualidad, San Pablo, Madrid 19914, pp. 689-746.

3 Giovanni della Croce, Salita al Monte Carmelo, libro 2, 22,11.

4 Teresa di Gesù, Libro della vita, 18,7.

5 Jean Mouroux, Expérience chrétienne, Paris, 1954.

6 Karl Rahner, Escritos de teología, VII, Madrid, Taurus, 1967, p. 25.

7 Di “esperienza qualificata” parla Augusto Guerra (cf. Introducción a la teología espiritual, , EDECA, Santo Domingo 1994, pp. 99-101). F. Ruiz Salvador, , che include questo concetto nella sua definizione di teologia spirituale, anche se lo sfuma in un senso più ampio ed ecclesiale (cf. Caminos del Espíritu. Compendio de Teología Espiritual, Madrid 1998, p. 32-34 e 41-44). Ch. A. Bernard parla solo di “esperienza personale” (cf. Teologia spirituale, 1987, Ed. Paoline, p. 94-95).

8 Cf. il criterio della Dei Verbum sulla rivelazione di Dio, che si realizza “gestis verbisque” (nº 2).

9 Cf. San Giovanni della Croce, Fiamma d’amor viva, 2,36.

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