Un poeta ai confini del mondo

È Jurij Rytcheu, lo scrittore čukčo figlio della remota Siberia nordica. Grazie a lui, per la prima volta possiamo accedere ai tesori culturali di una minoranza etnica a rischio di estinzione
Lo scrittore Jurij Rytcheu

Nel margine estremo  della Siberia, divisa dall’Alaska dallo stretto di Bering, la Penisola dei Čukči si denomina da questa popolazione autoctona, che peraltro non è l’unica di un territorio le cui risorse principali sono l’industria estrattiva (stagno, piombo, zinco, oro e carbone), la caccia, l’allevamento della renna e la pesca. Altre sono, infatti, le minoranze etniche che vi abitano: inuit (che qui prendono il nome di yupik siberiani e sireniki), coriachi, ciuvani, eveni e jukaghiri. E non mancano i coloni russi.

Per limitarci ai čukči, nazione dimenticata che conta oggi appena 12 mila anime, pochi sanno che se essa ha oggi una letteratura, tradotta in varie lingue, lo deve a colui che ne è considerato il “padre” e l’unico scrittore: Jurij Rytcheu. Sì, se non fosse per questo figlio dell’estremo nord, che attraverso la forma popolare della narrazione ha tramandato vita, usi, costumi e leggende della sua terra, certi tesori non sarebbero giunti fino a noi. Tutt’al più qualche antropologo o etnologo ne avrebbe dato resoconto scientifico: qualcosa, insomma, di riservato a pochi.

Scarse sono le notizie su questo autore, così estraneo alla nostra cultura ma proprio per questo di estremo interesse. Si sa che, figlio di un cacciatore, è nato a Uelen, un piccolo villaggio del circondario autonomo della Čukotka, proprio nell’anno in cui il suo popolo riceveva per la prima volta uno standard scritto: il 1930. E che si è diviso tra la propria terra d’origine e periodici soggiorni a San Pietroburgo, dove è morto nel 2008 a causa di un mieloma multiplo.

Tradotto in diversi Paesi, Rytcheu è stato pubblicato in Italia da Tranchida. Due soli i romanzi apparsi presso l’editore milanese: "Un sogno ai confini del mondo", che nel 1983 ha meritato il premio Grinzane Cavour, e "Quando le balene se ne vanno".

Il primo, ispirato a una vicenda realmente accaduta nei primi anni del Novecento, narra la storia di John McLennan, un marinaio canadese che in seguito ad un incidente si vede costretto a svernare nel villaggio čukčo di Enmyn. Durante il suo soggiorno forzato nel mondo dei ghiacci, John o Son, come ormai viene chiamato, non solo abbandona gradatamente tutti i pregiudizi nei confronti degli indigeni, ma anzi trova nella loro società tutti quei valori che già a inizio secolo l’Occidente pareva aver dimenticato: amicizia, dignità, solidarietà, amore, fedeltà e rispetto per la natura. Al punto che, pur potendo fare ritorno in patria, decide di rimanere fra coloro che lo hanno adottato.

Nel secondo racconto, non meno suggestivo e attuale se si pensa a certe problematiche della nostra società, Rytcheu riscrive una antica leggenda čukča sulla creazione del mondo e l’originaria armonia tra uomo e natura.

Nella notte dei tempi il Grande Amore trasforma Reu-la-Balena in uomo e lo dà in sposo a Nau. I loro primogeniti sono due balenotteri; dopo di loro nascono dei bambini, da cui hanno origine le genti della riva. Allorché Reu muore, prendendo per sempre la strada oltre le nuvole, Nau rimane sulla terra e riprova la potenza del Grande Amore.

Le generazioni si susseguono, mentre Nau continua a ripetere – purtroppo sempre meno ascoltata – le sue storie di balene e uomini uniti. Fino al giorno in cui l’ingordigia e la superbia spingono un uomo ad alzare l’arpione contro uno di quelli che Nau vorrebbe fargli credere suoi congiunti. «Se oggi hai ucciso un tuo fratello solo perché non ti assomigliava, cosa farai domani?», sono le ultime parole di Nau-l’immortale, mentre s’incammina a raggiungere il suo sposo oltre le nuvole.

Leggere Rytcheu, la sua prosa poetica ed essenziale, è fare esperienza di una sintonia impensabile, date le distanze geografiche e culturali, con una umanità ricca di valori e perciò degna di ammirazione.

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