Un plebiscito alla panchina del Milan
Leonardo, allenatore fuori dalle righe per l'eleganza, la libertà e l'intelligenza. Ha lasciato la squadra dopo 13 anni, sempre col sorriso sul volto
Leonardo Nascimento de Araújo non è un allenatore come tutti gli altri. Forse perché lui stesso non si sente un allenatore. Sabato 15 maggio ha lasciato il Milan dopo tredici, bellissimi anni: calciatore prima, dirigente poi, tecnico negli ultimi dodici mesi. E San Siro era tutto per lui.
Nell’ultimo impegno di campionato, un Milan-Juventus in tono minore, gli oltre centotrentamila occhi del “Meazza” erano rivolti più verso la panchina che non sul campo. Un plebiscito. Un tributo se vogliamo insolito, considerando che il Milan 2009/2010 non ha vinto nulla. Ma Leonardo, alla società rossonera, ha dato tanto, tantissimo: da protagonista assoluto del penultimo scudetto, quello targato Zaccheroni (stagione ‘98/’99), e da abilissimo dirigente, capace di portare alla corte di Berlusconi campioni del calibro di Kaká, Pato e Thiago Silva.
Sarà ricordato a lungo, l’uomo di Niterói (Brasile, stato di Rio de Janeiro), dai tifosi del Milan e non solo. Perché Leonardo è un esempio di eleganza, di educazione, di intelligenza, di buone maniere. Lo si sapeva già, lo ha confermato nell’ultimo anno. Difficile, almeno in Italia, trovare un allenatore così: mai una polemica, mai un’esternazione fuori luogo, mai una caduta di stile. Segni di forza, non certo di debolezza. E quando non poteva fare altrimenti, ha saputo “alzare la voce”, specie in seguito alle discutibili e ingiuste critiche piovutegli dall’alto. «Basta una parola di Berlusconi, e io me ne vado», aveva dichiarato Leo, da uomo libero, per nulla attaccato alla poltrona (o meglio, alla panchina…).
Ha saputo farsi voler bene da tutti. In primo luogo dai suoi giocatori, che fino all’ultimo, quando Leonardo era ormai sul piede di partenza, avevano sperato in un ripensamento da parte del proprio tecnico. Sempre col sorriso stampato sul volto, il brasiliano è venuto fuori da una situazione estremamente difficile, col Milan partito malissimo in campionato e con l’opinione pubblica a mettere in dubbio le sue qualità di allenatore. Poi la svolta, partita dal successo sul campo del Real Madrid e accompagnata da un gioco spumeggiante, a tratti il migliore in Italia. Il sogno scudetto è stato accarezzato per qualche domenica prima di fuggire nuovamente via, così come quello dell’ennesimo trionfo in Champions League. Il tutto, bene non dimenticarlo, con una squadra dall’età media piuttosto alta (specie in difesa) e martoriata dagli infortuni.
Leo ha fatto quel che ha potuto, e molto di più. A suo modo unico, capace di organizzare una conferenza stampa il giorno successivo a una partita (peraltro giocata male: 1-1 a Bergamo con l’Atalanta), perché al termine del match non aveva più voce. E così riconoscente verso i colori rossoneri da non abbandonare l’impegno con Fondazione Milan (ONLUS che sostiene una serie di attività destinate a promuovere il benessere sociale delle fasce più deboli della popolazione), della quale è stato prima direttore e poi segretario generale.
Ovviamente, non stiamo parlando di un santo: in molti, infatti, si ricorderanno la sua gomitata all’americano Tab Ramos durante i Mondiali di Usa ’94. Ma un gesto negativo, peraltro così lontano nel tempo (e che ha segnato Leonardo stesso), non cancella quanto di buono fatto nel corso degli anni. Da centrocampista offensivo, fantasioso ed eclettico; da consulente di mercato, intuitivo e coraggioso; da allenatore-amico, umile ma ambizioso. E il fatto che parli correttamente cinque lingue (portoghese, spagnolo, italiano, inglese e francese, più «un po’ di giapponese», come da lui stesso dichiarato) la dice tutta sullo spessore di Leo. Il suo motto? «Penserò al futuro quando sarà più importante del presente». Niente male, no?