Un piccolo-grande eroe sul set dell’Aquila
Era il 1980. Cominciavo la mia professione. Il direttore Boselli mi affidò il compito di raccontare le storie del terremoto in Irpinia. Senza mezzi e soprattutto senza esperienza arrivai a Laviano, Lioni, Sant’Angelo dei Lombardi, Potenza… Rimasi colpito da quel che vidi ma anche edificato dalla forza contadina della gente della regione. Non incontrai molti colleghi nella zona, né troppi cameraman o fotografi. In una frazione sopra Laviano, arrivai addirittura prima dei soccorritori, e così aiutai i senzatetto a montare qualche tenda lanciata da un elicottero. Provai vergogna allorché una donna mi rimbrottò d’averla fotografata davanti alla sua casa distrutta. Le chiesi scusa e spostai con lei una grossa trave. Condividemmo un panino. Le distruzioni erano ben maggiori ed estese di quelle provocate dall’ultimo sisma abruzzese, ma cronache e commenti furono improntati ad una certa misura, accompagnata dal necessario velo di pudore steso sulle immagini della morte. Mi torna in mente questo mio primo reportage ascoltando i resoconti dei colleghi catapultati nell’emergenza aquilana (vedi il Primo piano di questo numero). Tutti, nessuno escluso, mi hanno raccontato dell’imbarazzo provato nell’avvicinare gli uomini e le donne colpiti dal sisma. Irritati, storditi, avviliti, indispettiti dall’invadenza degli operatori dei media, dalla loro affannosa ricerca di uno scoop, dell’immagine che rimane, dello choc di lacrime ancora calde. M’hanno raccontato di fotografi che nottetempo sono penetrati nelle tende per strappare una foto di precaria intimità. M’hanno spiegato come la zona fosse percorsa da auto blu (o piuttosto dai suv) di politici di ogni livello – nazionali, regionali, provinciali e comunali -, che avevano al loro seguito il fotografo o il cameraman di turno: un abbraccio alla vecchietta che raccoglie una foto dalle macerie, una buona inquadratura, mettetevi a favore di luce, fammi un capolavoro per la stampa… E poi via, verso la ripresa o lo scatto seguente. Da Onna hanno cacciato dei reporter, da Paganica le auto con le paraboliche sul tetto. Mentre i vigili del fuoco erano costretti a sollevare teli di plastica scura per impedire alle decine di cameraman e reporter d’inquadrare le scene più drammatiche del salvataggio d’una vittima, o del recupero delle salme imbiancate dai calcinacci. E via dicendo, per una vergogna non da poco che ha coperto le nostre professioni mediatiche. Ma non è ancora tutto. Questa volta sono rimasto a presidiare la redazione. Ovviamente, lasciavo aperto sul mio computer il filo diretto sul sito della nostra agenzia di stampa nazionale, o su quello di uno dei maggiori quotidiani. Tutti, nessuno escluso, oscuravano lo schermo all’apertura di un lancio d’agenzia con pubblicità di dubbio gusto e di sicura volgarità. Che c’azzeccava la donna svestita e ammiccante sulla foto dei soccorsi? O gli spudorati slogan d’un poker telematico sopra le notizie del numero delle vittime via via aggiornato? La società dello spettacolo – espressione coniata da un preveggente intellettuale francese, Guy Debord, già nel 1967 – ha battuto ogni suo record di invadenza in occasione di quest’ultima calamità naturale. Con l’encomiabile immediatezza dei resoconti, certamente, ma anche con la disperazione in primissimo piano, con le passerelle dei politici, con il fisso immagine sul sangue raggrumato con la polvere… L’imperatrice audience ha stravinto, e noi ci adeguiamo, e noi sopportiamo, e noi non riusciamo a spegnere lo schermo.
Ma lasciateci anche dire che ci sono stati tanti professionisti seri sul campo, commossi e commoventi sul serio. Uno per tutti, non ne faccio il nome perché rischierebbe grosso, diciamo uno dei tanti piccoli reporter sguinzagliati sui luoghi dai capi delle tivù schiacciasassi. Un piccolo-grande eroe che non ha piantato nessuna tenda, non ha veicolato soccorsi sui luoghi e non ha salvato nessuno. Ha solo distrutto una cassetta video. Spedito pochi minuti dopo il terremoto a L’Aquila, è stato preceduto dal suo cameraman. Questi, tutto fiero, s’è presentato ansimante al regista: aveva filmato sangue, cadaveri, mani mozzate, bimbi con gli occhi chiusi dalla polvere della morte. Ebbene, il nostro piccolo-grande regista ha preso la cassetta, l’ha rigirata tra le mani. Poi l’ha aperta, distruggendola all’istante, prima ancora di poterne visionare il contenuto. Quindi ha detto al suo cameraman allibito: E ora vai a fare il tuo lavoro. Umano, per favore.