Un piano concreto per l’inclusione e il lavoro

Le conseguenze concrete del riconoscimento della famiglia nel pieno dell’emergenza democratica del Paese. Intervista a Gianni Bottalico, presidente delle Acli
Una famiglia numerosa

Tre minuti a testa, dibattito, domande ed esperienze condivise: è il lavoro nei gruppi tematici, terminati con il pranzo di sabato, che mostra il volto più vicino alla realtà dei delegati di diocesi, associazioni e movimenti dei cattolici italiani accolti nel centro di una Torino irreale nella sua bellezza composta e regale. Il legame con la vita concreta delle famiglie aiuta a superare ogni retorica per imparare dai “santi sociali” di questa terra che affrontarono il volto più duro della modernità come una sfida evangelica aperta piuttosto che una fuga dal mondo.

Rimanendo su questa prospettiva esigente abbiamo posto alcune domande a Gianni Bottalico, presidente delle Acli, la grande associazione dei lavoratori cristiani che avrà modo di riprendere, a breve, i contenuti e le sollecitazioni che arriveranno dalle settimane sociali nell’incontro di studi programmato a Cortona (Ar) dal 19 al 21 settembre. Il titolo “Abitare la storia” pone una questione radicale di senso. La crisi economica, affermano, «ha disvelato una ben più profonda crisi sociale, culturale e, quasi, antropologica» e in questo quadro «appare in affanno perfino il significato dello stare insieme, evidenziando la centralità della “questione democratica”».

Se la centralità della famiglia è il criterio di conoscenza e di azione di una politica del bene comune in Italia, quali sono gli interventi strutturali urgenti a vostro giudizio in campo economico e sociale?
«A nostro avviso tali interventi sono essenzialmente due: un piano industriale che punti alla reindustrializzazione “selettiva” del Paese, cioè nei segmenti dove possiamo ancora essere competitivi, e un impegno per la riduzione delle disuguaglianze sociali che si traduce innanzitutto nell'aumentare la capacità di spesa delle famiglie dei ceti lavoratori, il volano che fa ripartire l'economia, ed anche in un piano nazionale contro la povertà assoluta per il quale, insieme ad altri soggetti sociali, abbiamo presentato la proposta del Reddito di inclusione sociale».

A luglio, davanti ai primi provvedimenti sull’occupazione da parte del governo Letta avete detto che bisogna osare di più puntando sulla redistribuzione del lavoro in un’ottica solidale (lavorare meno, lavorare tutti). Ma come si fa a bloccare con efficacia una delocalizzazione selvaggia e senza regole che umilia tante vite familiari e impone la crescita della disoccupazione?
«Purtroppo dagli Stati Uniti, che spesso anticipano le tendenze del mondo occidentale, arrivano dei segnali che ci dicono che in realtà la delocalizzazione si sta per bloccare, o quantomeno sta rallentando, ma non nel senso che auspichiamo. Mentre in Cina dal 2005 al 2010 in media gli stipendi dei lavoratori si sono quasi raddoppiati, negli Usa il settore manifatturiero sta tornando competitivo attraverso una forte riduzione del costo del lavoro. L'unica via per bloccare questa corsa all'abbassamento dei salari ed alla riduzione dei diritti dei lavoratori è quella di costruire quella “coalizione mondiale per il lavoro decente” indicata dalla Dottrina sociale della Chiesa, in modo che tutti, non solo i grandi fondi speculativi, possano trarre beneficio dal commercio globale».

Mentre sollecitiamo più risorse alle famiglie, l’autunno imminente porterà, stando alle previsioni, tagli alle spese, dismissioni e privatizzazioni. Esiste una logica del buon padre (e madre) di famiglia davanti a queste manovre imminenti, in un Paese che ha visto il caso Telecom?
«Mi pare che questo governo si stia muovendo senza pregiudizi ideologici, guardando caso per caso ciò che richiede l'interesse nazionale. Quest'ultimo, tuttavia, ben difficilmente potrà essere perseguito in caso di perdita di controllo di asset strategici per la potenza industriale del Paese tipo Eni o Finmeccanica».

Il caso dell'Ilva di Taranto è stato erroneamente interpretato come un conflitto tra lavoro e salute. Non si tratta invece, come per altre vicende ambientali, del riconoscimento del diritto alla vita che obbliga a riconsiderare tutta la politica?
«Guardando al caso concreto, la contrapposizione tra lavoro e salute è un aut aut inaccettabile. Entrambi vanno tutelati e garantiti. Sarebbe come chiedere a qualcuno di scegliere di rinunciare ad un braccio o ad una gamba. In prospettiva occorre costruire una nuova visione della politica: al posto del profitto va affermata la centralità della persona, passando, come ha detto papa Francesco dalla cultura dello “scarto” a quella dell'inclusione».

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