Un patriarca nel cuore

Un invito a cena a casa dei Magno nel quartiere romano della Balduina è l’occasione per riprendere il filo di un’esperienza comune che risale a oltre trent’anni fa. Per la verità, se non fosse per qualche trascurabile dettaglio come la chioma alquanto diradata, farei fatica a distinguere Franco, 49 anni, dal ragazzino insieme al quale ho vissuto alcuni momenti forti della mia giovinezza. Al tipetto irrequieto dalla inseparabile chitarra di allora è subentrato oggi il general manager di una multinazionale farmaceutica, marito di Lucia e papà di quattro figli dai 18 anni ai dieci mesi. Qui, prima ancora dei miei ospiti, a “parlare” è lo stesso arredamento: alcuni mobili e oggetti di chiara origine orientale testimoniano infatti il periodo trascorso da questa famiglia con radici pugliesi sulle sponde del Bosforo, dall’89 al ’96. Nel corso della serata però la conversazione ci riporta più indietro nel tempo, al 1967: allora Franco aveva 13 anni e viveva a Bari, la sua città natale. Era il tempo in cui qua e là nascevano i primi complessi musicali dei giovani dei Focolari; e Franco, invitato a suonare in quello di Napoli (ne facevo parte anch’io), non s’era tirato indietro malgrado i problemi dovuti alla distanza. “Difatti – ricorda compiaciuto – le prove le facevo solitamente sul palco, prima dello spettacolo. Alcune volte eravamo chiamati ad intervenire a qualche convegno a Roccadipapa, per cui io uscivo da scuola ed andavo direttamente all’aeroporto: ricordo che il biglietto per Roma costava 9. 900 lire! Arrivavo, suonavamo, e poi di corsa a Termini, dove prendevo il treno delle 0,40 per essere a scuola il giorno dopo”. Certo, erano anni pionieristici, dove l’entusiasmo e la validità del messaggio che si voleva tradurre in musica compensavano largamente la mancanza di tecnica e di professionalità. “Era una vita affascinante, partecipavi alla nascita di un nuovo movimento nella chiesa e vedevi avverarsi sotto gli occhi le parole del vangelo”. Nell’estate del ’69 il Gen Sole (era il nome del nostro complesso) venne invitato ad animare una manifestazione a Beirut. Dall’Italia al Libano, attraverso Slovenia, Croazia, Serbia, Bulgaria, Turchia e Siria su un pullmino Volkswagen, dove eravamo stipati in nove (compresi bagagli e strumenti). Un’opportunità unica, durata venticinque giorni, di incontrare popoli e culture diverse, e una accelerata “scuola” di vita in comune per noi che, in questo campo, eravamo ancora dei principianti. A Istanbul, l’antica Costantinopoli, sia all’andata che al ritorno due memorabili incontri col patriarca ortodosso Athenagoras I. È interessante notare come l’ideale dell’unità stesse sviluppando, in giovani dell’epoca della “contestazione”, una sensibilità che li rendeva capaci di entusiasmarsi per una personalità ecumenica di quel calibro. “Rimasi affascinato da quella figura imponente eppure così semplice, così affettuosa, così vicina. Quando mi baciò per salutarmi, la mia testa scomparve nella sua lunga barba bianca. Quell’incontro ravvicinato segnò l’inizio di un amore per i fratelli ortodossi che non sarebbe mai venuto meno”. Tornato a Bari, Franco acquista maggiore consapevolezza del ruolo svolto – per dislocazione geografica e per eredità storica – dalla sua città natale nel dialogo ecumenico. Ogni tanto col pensiero va alla Turchia, ma come ad un capitolo chiuso, non immaginando quanto gli diverrà familiare fra qualche anno il Fanar, la residenza del patriarca. Negli anni seguenti partecipa agli sviluppi del movimento fra i giovani e completa gli studi universitari. “Finché – racconta – conobbi Lucia, la futura compagna della mia vita. E anche qui sperimentai il centuplo promesso da Gesù: forse perché avevo cercato di seguire lui, mi fece incontrare la persona “giusta”, quella che sognavo”. Nell’81 il matrimonio; poi, scaglionate, le nascite di tre figli: Marco, Ilaria e Fabio. E intanto matura un progetto: “Avevamo dato la nostra disponibilità per trasferirci dove il movimento avesse bisogno. E vedi caso, si aprì una possibilità proprio per Istanbul, dove la presenza di una famiglia poteva risultare utile alla comunità focolarina lì presente. Così, nel settembre dell’89, partimmo con i nostri tre figli, tagliando i ponti un po’ con tutto quello che era stato il nostro mondo fin allora. “Per lavorare all’estero, accettai un incarico da dirigente nella ditta in cui lavoravo. Fu un’esperienza molto gratificante, soprattutto per il rapporto di stima e di amicizia instaurato con i miei dipendenti: all’inizio sei, per arrivare poi a duecento. E pensare che era fuori dalle mie aspirazioni fare carriera! “Nella capitale turca ebbi modo di rinnovare quell’amore per gli ortodossi avvertito anni prima. Cordiali, anzi fraterni, i rapporti con diaconi e metropoliti del Fanar. Quanto all’attuale patriarca, Bartolomeo I, era sempre contento di vederci, amava tanto i nostri bambini e ci riempiva di regalini; una volta eccezionalmente è venuto anche a casa nostra. Con lui c’era un rapporto semplice e profondo che rientrava in quel “dialogo dell’amore”, base essenziale dell’ecumenismo. “Questa immersione nel mondo musulmano e ortodosso ha spalancato nuovi orizzonti sia a noi che ai nostri figli. Un dono di cui ringraziamo ancora Dio. Certo, ha avuto i suoi risvolti difficili. In un contesto dove noi cristiani eravamo una minoranza, il disagio dell’isolamento si faceva sentire; a volte, sembrandoci che non succedesse nulla (intorno a noi non fioriva la comunità come accadeva altrove), veniva da chiederci cosa ci facevamo lì, dopo aver lasciato parenti ed affetti. Bisogna poi considerare che gli ultimi due anni a Istanbul li ho trascorsi da solo, in quanto Lucia e i ragazzi, a motivo dei loro studi, erano rientrati a Roma, dove avevamo fissato la nostra nuova residenza e dove li raggiungevo nei fine settimana. Oggi direi che il senso del nostro soggiorno ad Istanbul è stato soprattutto quel “far famiglia” con i focolarini e le focolarine di lì, che alimentava la presenza di Gesù per i piani da lui pensati per quella terra e quel popolo”. Decisamente, “ricominciare” è una parola che si attaglia ai Magno, genitori e figli: anche a Roma, infatti, si trattava di iniziare in certo senso tutto da capo, dal cercar casa al riambientarsi nel tipo di vita della capitale. “Ma ogni difficoltà è servita ad accrescere l’amore fra di noi”. Una gioia veramente imprevista è stata la nascita, neppure un anno fa, di Roberto: un bambino vivacissimo, come m’immagino il papà alla sua età. Oggi Lucia e Franco sono un punto di riferimento per diverse famiglie, alle quali sono in grado di offrire un’esperienza di cui solo il tempo sta scoprendo la ricchezza e l’utilità per gli altri, svelando al tempo stesso il senso di ciò che, sul momento, poteva risultare oscuro. QUELLA VOLTA CON ATHENAGORAS Dal Diario del “Gen Sole” (20 luglio 1969) Siamo andati al Fanar, dal patriarca. Nell’atrio c’era l’icona della Madonna davanti alla quale ogni notte va a pregare, accendendo una candela per sé e una per Paolo VI. Nel suo studio c’erano anche altre persone di varie nazionalità. Lui stava seduto dietro ad una scrivania, sulla quale era una foto che raffigurava l’abbraccio suo col papa. Ci siamo messi nella prima fila di sedie, lasciata libera per noi. Gli occhi nerissimi e profondi di Athenagoras seguivano ogni movimento dei presenti. Poi, rivolgendosi a noi: “Dove eravate? Vi cercavo. . . Vi amo molto”. Gli è stato spiegato che venivamo da Rocca di Papa, dove tanti altri giovani come noi avrebbero voluto venire a salutarlo. Allora il patriarca si è rivolto a tutti e si è messo a parlare di noi e del movimento, prima in greco e poi in inglese. Infine, indirizzandosi nuovamente a noi: “Allora, come va? L'”esercito” avanza?”. E poco dopo: “Voi siete la nostra speranza per l’unione delle chiese, non i teologi. . . C’è qualcuno di voi teologo?”.Al nostro diniego ha esclamato, alzando le braccia: “Grazie a Dio!” e tutti siamo scoppiati a ridere. “Ma – ha aggiunto – abbiamo un grande teologo: il papa di Roma, che io chiamo Paolo II. Il suo destino è di tradurre la dottrina dell’Apostolo in un linguaggio nuovo, dell’amore. È un grande sapiente, e io sono sempre con lui. . . “. Dopo di che, gli abbiamo chiesto se era contento di sentire una canzone. Al suo sì, Paolo è uscito per cercare la chitarra che ci era stata requisita all’ingresso. Mentre cantavamo, sul suo volto si leggevano: gioia, compiacimento, amore. Alla fine ha detto: “È l’epoca più bella: ci vediamo tutti fratelli, appartenenti alla stessa chiesa, e noi viviamo questo spirito, viviamo questa atmosfera dell’unità grazie a Sua Santità il papa Paolo II, che ha aperto la strada. . . “. Finita l’udienza, si è alzato per farsi fotografare con noi. Ogni tanto ripeteva: “Come vi amo, mes petits fils!”.

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons