Un paranoico avaro
Tutto parla dell’oggi, di una società sottomessa ai miti del successo e del denaro, dove anche i sentimenti e i rapporti, i desideri sono guidati dall’interesse. Ne L’avaro di Moliere il denaro per cui tutti si accapigliano, e per il quale qualcuno è pronto a sacrificare la felicità, è solo il segno di una posizione sociale spesso volgare, rinchiusa nelle mura asfittiche della propria casa. Nella bellissima scena prospettica di grandi quadrati fluttuanti che forano il buio, Arturo Cirillo ne evidenzia l’ossessione, soprattutto del farlo e del conservarlo, unico valore su cui valutare la propria vita e quella degli altri. Lo stesso regista veste magnificamente i panni di Arpagone accentuandone la vecchiaia: paranoico, malvagio, irriducibile. Attorno a lui si muove quel mondo di figli vanesi, adulatori professionali, ipocriti, non meno avidi e interessati del tirchio per eccellenza. La cassetta di monete rubata, appena restituita lo vedrà con la testa infilata dentro di essa che, già dall’inizio, risulta vuota. Rannicchiato a terra si blocca in quel gesto possessivo, senza dire più nulla. E con la sua corte sullo sfondo. Leggera ed elegante nei costumi che sfumano come i colori di Rothko, la commedia – con un cast affiatato, ma non tutto encomiabile – corre tutta di un fiato, culminando, nel moltiplicarsi dei riconoscimenti, in un siparietto napoletano che ne ha spostato la vicenda dalla Parigi originaria.