Un parametro di giustizia per famiglia e denatalità

Forse crollano i pregiudizi contro le politiche familiari, ma dove si prendono i soldi? Come previsto l’Istat conferma anche per il 2019 il dato relativo alla popolazione italiana che continua a diminuire e ad invecchiare. Che tipo di interventi strutturali sono necessari per invertire la rotta nel segno della giustizia sociale? Abbiamo lanciato la proposta sul numero di gennaio di Città Nuova 2020
Foto Cristian Gennari

È un dato di fatto. Chiudere i paradisi fiscali è possibile, manca la volontà politica. Ci ha detto così Stefano Zamagni. Grandi società spostano i profitti in Paesi dove pagano imposte molto basse. Soldi che dovrebbero rimanere in Italia per, ad esempio, prevenire il dissesto geologico. Bisogna cambiare le cose per affrontare il futuro di tante famiglie che non hanno scappatoie all’estero e si fanno carico di imposte sproporzionate. Denaro sottratto a bisogni essenziali, come la banale spesa quotidiana. L’intera economia potrebbe uscire dalla trappola della stagnazione. Cresce, invece, il mercato dei debiti. I pubblicitari della Compass di Mediobanca vestono Nino Frassica da portiere di condominio che consiglia di chiedere contante in prestito. Si stimano in Italia 2 milioni di nuclei familiari in sovraindebitamento irreversibile.

Ma non tutte le famiglie sono uguali in un Paese che ha un forte debito pubblico, eppure è ai vertici mondiali per ricchezza accumulata dai privati. Le diseguaglianze producono un pericoloso senso di frustrazione. Terra di conquista per narrazioni contro nemici di comodo, gli immigrati. Secondo il Censis, insicurezza diffusa e carenza di futuro inducono all’individualismo e a pulsioni antidemocratiche. È in tale contesto che bisogna valutare la carenza delle politiche familiari.

Paura denatalità

Sono sempre più depressi e scontati i commenti sul bassissimo tasso di natalità registrato ogni anno in discesa dall’Istat. È un fenomeno complesso. Non può essere liquidato con incentivi o tragicomici spot sulla fertilità. È certo, comunque, che in Italia, accogliere un figlio espone, di solito, a un impoverimento economico e alla fragilità sociale. A tale stato di cose ha contribuito l’idea diffusa del figlio come un bene privato e non pubblico, accessibile a chi se lo può permettere. Forse si tratta di una reazione all’eredità della propaganda del Ventennio sulla prole destinata alla guerra. Per il demografo Gianfranco Della Zuanna, anche la normativa pro natalità della Francia trova origine dalla sconfitta militare di Sedan nel 1870, come reazione alla minaccia della prolificità dei tedeschi.

Per anni, l’egemonia di un certo laicismo, prevalente a sinistra, ha impedito che in Italia si parlasse di quoziente familiare, il metodo che permette alle famiglie francesi con figli di avere più reddito e meno imposte, oltre a tanti servizi. Una tale impostazione, confermata da una sentenza della Consulta del 1976, ha visto nel laicissimo esempio d’Oltralpe un privilegio per i redditi più alti e un disincentivo al lavoro delle donne.

Un sostegno è, finora, arrivato dagli assegni per il nucleo familiare, previsti solo per lavoratori dipendenti e assimilati, fino al compimento dei 18 anni dei figli. Quando, cioè, iniziano le spese più pesanti per i giovani, tanto che, adesso, esperti guidati da Fabrizio Barca propongono una dote pubblica di 15 mila euro. Il fondo previdenziale per gli assegni familiari è stato, tra l’atro, utilizzato per altri fini in questi anni.

 Assegno unico

Per superare le critiche sul quoziente familiare, il Forum delle associazioni familiari ha elaborato la proposta “Fattore famiglia” per rendere non tassabile la parte di reddito necessario per il mantenimento della famiglia. Ma anche questa idea non è stata accolta sul serio nel dibattito politico, perché destinata a spostare miliardi di euro in maniera strutturale. Nessuno oggi, ad esempio, immagina di poter togliere il bonus di 80 euro nette al mese introdotto dal governo Renzi per i redditi lordi personali, senza parametri familiari, compresi tra 8.174 e 24.600 euro all’anno: una misura da 10 miliardi con pesanti conguagli negativi per chi prende di più ma anche di meno.

Esiste poi una selva di bonus (bebè, scuola, ecc.) inseriti come una specie di vincita alla lotteria. Ci sono, infine, le spese per la scuola, l’asilo nido, ticket sanitari, ecc., che le famiglie pagano in base all’Isee. Un indicatore discutibile che riconosce un peso troppo basso ai figli, così da rendere insostenibile il costo dei servizi pubblici per i redditi medi, che ne restano esclusi, oppure si rivolgono al settore privato. Alcuni Comuni hanno deciso di adottare criteri più equi. Per uscire da tale giungla, l’ultima proposta dell’“assegno unico per il figlio”, universale cioè spettante non solo ai lavoratori dipendenti e simili, sembra incontrare un consenso trasversale. Nella versione originale del Forum ingloba tutte le prestazioni (anche le detrazioni fiscali) per riconoscere 250 euro a figlio (fino a 18 anni o 26, in diversa misura, se studia) indipendentemente dal reddito della famiglia, perché si riconosce il valore sociale di ogni figlio. Come accade per le detrazioni che spettano a tutti per determinate spese considerate di utilità comune (ad esempio, il risparmio energetico). Nel progetto Del Rio-Lepri presentato in Parlamento, si pone, invece, un limite rapportato al reddito più elevato tra i coniugi.

 Compatibilità di bilancio

A conti fatti, dagli uffici di bilancio parlamentari, si tratta di una spesa, meglio dire investimento, di 9 miliardi di euro in più all’anno. Tralasciando l’attuale fase di passaggio per proiettarsi verso la legge di bilancio 2021, bisogna capire se tale impostazione sia compatibile finanziariamente con la riduzione del cuneo fiscale (taglio imposte e contributi per imprese e lavoratori) e quelle di contrasto alla povertà, come è in parte il reddito di cittadinanza. Istanze destinate altrimenti a farsi la guerra tra loro.

Si apre così la questione di dove andare a prendere i soldi. Da 20 anni la campagna Sbilanciamoci, ad esempio, rende accessibile il documento contabile dello Stato proponendo cambiamenti a costo zero. Il più semplice è quello che riduce le spese in armamenti, perché orientati non alla difesa quanto agli interessi delle imprese transnazionali. Ma è un tabù intoccabile. Esiste la massa dell’elusione ed evasione fiscale che vale, secondo gli esperti del ministero dell’Economia, 107 miliardi di euro all’anno (escluso il giro della criminalità organizzata). Concentrandosi sulla sola elusione, il presidente dell’Antitrust Roberto Rustichelli, prendendo come esempio concreto lo spostamento della sede fiscale della Fiat Chrysler in Olanda, ha detto che «la concorrenza fiscale genera esternalità negative che costano a livello globale 500 miliardi di dollari l’anno, con un danno per l’Italia tra i 5 e gli 8 miliardi di dollari». Basterebbe cominciare dai Paesi Ue per recuperare tale importo.

Sembra un ragionamento lontano ed è, invece, estremamente concreto, altrimenti l’ennesimo ministro della Famiglia sarà costretto a fare promesse vane.

La famiglia è il parametro di una reale giustizia sociale, attenta all’intero disegno della società. Così da evitare, ad esempio, di promuovere astratte leggi di “conciliazione famiglia e lavoro” in un mondo in cui non c’è occupazione o poteri che impongono ricatti odiosi e regole non scritte. Perché si può arrivare, magari, ad avere l’assegno unico, ma con una sanità pubblica che, con il crollo degli investimenti (meno 42% dal 2014 ad oggi), cade a pezzi.

Si accettano contributi e proposte per ragionare in grande. Scrivere a segr.rivista@cittanuova.it

 

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