Un orso cinese una storia mongola
Un cinema che viene da lontano, un cinema di seconda e di terza fila che spunta inatteso da angoli dimenticati del mondo e si fa avanti in punta di piedi, quasi chiedendo scusa per il disturbo causato ai colossi dell’industria hollywoodiana, quelli che per l’occasione hanno mobilitato le grandi star e calamitato l’attenzione dei media. È il cinema che ha trionfato alla 57ª edizione del Festival di Berlino, entrato timidamente nel Palast della Potsdamer Platz e che ha rubato la scena a ben più paludati concorrenti: Il matrimonio di Tuya del cinese Quanan Wang, premiato con l’Orso d’oro; El otro (L’altro) dell’argentino Ariel Rotter, Gran Premio della Giuria e premio al miglior attore (Julio Chavez); Beaufort dell’israeliano Joseph Cedar, premiato per la miglior regia. Un altro riconoscimento a sorpresa è stato il premio alla miglior attrice, assegnato alla tedesca Nina Hoss per Yella di Christian Petzold. I pronostici si erano appuntati su Irina Palm dell’inglese Sam Garbarski, ma la giuria presieduta dall’americano Paul Schrader gli ha preferito il realismo poetico del cinese Il matrimonio di Tuya, anche se la vicenda narrata è curiosamente simile. Per poter provvedere al marito paralitico e ai due figli in tenera età, una donna mongola divorzia e sposa un uomo ricco, il quale si accollerà anche il peso del precedente nucleo familiare. Il desiderio di una diversa condizione di vita è pure alla base dell’argentino El otro, storia di un uomo che per iniziare una nuova esistenza assume l’identità di un morto. Un gesto che va interpretato come allegoria di un intero Paese che intende cancellare il suo passato e proiettarsi in un futuro diverso. L’albo d’oro si completa con l’israeliano Beaufort, triste e malinconica elegia di un avamposto dell’esercito israeliano in territorio libanese, con un giovane comandante alla testa di un presidio di soldatini timorosi e inesperti, che sognano invano di poter tornare a casa mentre invece sono costretti a lottare contro un nemico invisibile, anche loro vittime di una condizione umana sulla quale sembrano pesare tutte le più assurde contraddizioni del mondo. Grande delusione dunque per Irina Palm, non solo per il film ma anche per la sua interprete Marianne Faithfull, il cui valore è stato riconosciuto proprio dall’attrice tedesca Nina Hoss, che le ha soffiato il meritato riconoscimento. Probabilmente attribuito in base a criteri casalinghi, a doveri di ospitalità e a calcoli di tipo politico, come sempre accade quando, per non scontentare i padroni di casa, le giurie ricorrono a contentini e a premi di consolazione. Film come quelli citati confermano comunque il dato più interessante di questa 57ª Berlinale e cioè che il disagio, il bisogno, lo stato di necessità determinato da squilibri sociali e da insufficienze nel sistema assistenziale spingono un’umanità dolente e angosciata verso tristi e sconsolate esperienze che in primo luogo offendono la dignità umana e l’amor proprio di chi è indotto a effettuare certe scelte. L’insicurezza affettiva, il disordine sessuale, la confusione sentimentale completano il quadro antropologico tracciato dai film presentati al Filmfestspiele: uno spaccato carico di incertezze comportamentali, specchio di un tessuto sociale attraversato da una crisi di valori che nell’intimo riflette la più ampia disarmonia dell’ambiente circostante. Ma a questa crisi di valori il Festival di Berlino ha opposto pure l’antidoto con In memoria di me di Saverio Costanzo (unico film italiano in gara), sulle scelte di un giovane che nella vocazione religiosa pensa di aver trovato la sua strada. Del tutto ignorato da una giuria il cui presidente ha scritto un libro di notevole spessore sul sacro nel cinema e che forse ha qualcosa da farsi perdonare.