Un nuovo scenario politico internazionale
Nel Museo di Belle Arti di Budapest è esposta un’opera del pittore tedesco Oswald Achenbach (1827-1905), della scuola di Düsseldorf.
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Al di là del suo valore artistico, quest’opera di Achenbach mi ha particolarmente colpito perché include due elementi a mio avviso simbolici delle relazioni internazionali non solo nel mondo contemporaneo, e che acquistano direi un carattere archetipo: la torre e il ponte.
La torre è la quintessenza del riflesso difensivo, dell’arroccamento, del senso dell’assedio e del timore dell’invasione. La torre è un elemento architettonico di tipo essenzialmente militare, e rappresenta plasticamente una percezione di minaccia, che provoca un atteggiamento di allerta e di allarme.
Il ponte, al contrario, per definizione unisce due territori che in sua assenza rimarrebbero divisi, delimitati da un fiume o da un fossato che altrimenti sarebbe ben arduo varcare. Il ponte, in un certo modo, è un invito alla comunicazione, al contatto diretto, al dialogo.
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Può darsi che tale impostazione abbia avuto una sua plausibilità storica, logica e politica nel passato, anche recente. C’è da chiedersi se ancora oggi essa abbia una qualche utilità, nell’era in cui le relazioni diventano in gran parte immateriali e non hanno necessariamente bisogno di ponti fisici per realizzarsi e in cui è divenuto fin troppo semplice diroccare o abbattere torri militari o civili (come purtroppo insegnano, simbolicamente, i tragici fatti dell’11 settembre 2001). D’altra parte, è ugualmente simbolico e anche inquietante (al di là del valore militare e strategico di tali gesti) che le guerre spesso implichino la distruzione di ponti di vari usi e dimensioni.
La scena di Achenbach suggerisce che sia la torre che il ponte siano in una condizione di rovina, e che pertanto abbiano da molto tempo perso la loro funzione sociale originaria.
Per restare nella metafora architettonica, il mondo contemporaneo – senza indulgere affatto nelle semplificazioni falsificanti sulla presunta piattezza del globo– assomiglia sempre più ad una struttura aperta, un’agorà, una piazza o, in senso economicistico, a un mercato, a seconda del paradigma relazionale che si privilegia. E dunque il compito della politica – soprattutto della politica internazionale – dovrebbe essere quello di creare nuove solide strutture che facilitino l’interazione globale, costruendo portici, vale a dire strutture aperte e accessibili, capaci di offrire riparo universale, ma anche dotate di un proprio carattere e una propria geometria; in altre parole, di regole e incentivi relazionali.
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La verità è che c’è bisogno di un nuovo progetto politico internazionale, un new deal globale, una nuova alleanza più inclusiva e paritaria, che vada ben oltre le alleanze militari ed economiche esistenti (la piazza, oltre la torre e il ponte). Non è per nulla un progetto utopico: basti guardare allo stato del mondo per comprendere che non solo è realistico, ma anche urgente e necessario. La nuova “governance globale” di cui tanto si parla, ma di cui sinora poco si è visto, può rappresentare un’occasione unica; ma a condizione che il nuovo multipolarismo venga riflesso in un più democratico multilateralismo e si passi dalla dimensione globale a quella davvero mondiale o universale.
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Il punto di sintesi e di connessione è la “comunità planetaria”, intesa in un modo strutturalmente plurale, cioè come “comunità di comunità”, come un sistema complesso e interrelato di cerchi concentrici all’interno dei quali si svolgono, purché in modo del tutto libero e non esclusivo, diversi livelli di appartenenza politica e di partecipazione.
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Tuttavia la post-globalità va letta all’interno di una situazione nuova, che definisco “politica inframondiale”. Un altro arbitrario neologismo? La verità è che talvolta abbiamo bisogno di parole nuove per descrivere fenomeni nuovi. In sostanza, l’espressione “politica inframondiale” tenta di descrivere la situazione di stretta interconnessione che ormai si registra tra le varie aree del mondo, e che va ben al di là della globalizzazione. Kant aveva intuito questa evoluzione quando, già nel 1795, nel suo progetto di pace perpetua rilevava che, come effetto dei legami sempre più forti tra i popoli e gli eventi sempre più mondiali, ogni violazione di un diritto in qualsiasi parte del globo venisse percepito come una ferita dall’intera umanità. (…)
La tesi fondamentale del libro suggerisce che ogni politica, oggi, è “politica interna mondiale”, perché la dimensione dell’appartenenza politica di ciascuno ha ormai un orizzonte planetario.
Si tratta non solo di prendere atto di questa realtà, ma di utilizzare questo nuovo spazio politico per comprendere, incidere, impegnarsi per il cambiamento. La famiglia umana universale” non può ridursi a uno slogan, a un concetto astratto o a una mera indicazione normativa, ma è un criterio-guida per mettere in essere politiche che siano capaci di coniugare l’identità e, al contempo, mantenere un’apertura al mondo e alle differenze.
Da Pasquale Ferrara, La politica inframondiale, le relazioni internazioni nell’era post-globale (Città Nuova, 2014)