Un nuovo Rigoletto
Milano, Teatro alla Scala. Capolavoro notissimo. Eppure, può ancora aprire un mondo. Alla Scala Riccardo Chailly, concertatore e direttore eccellente, con un’orchestra di altissimo livello ( le impennate dei violini, la morbidezza delle viole, la fragranza degli ottoni…) ed un cast di rilievo, ne ha evidenziato il fuoco con forza: accentuando i contrasti e i colori – mai udite viole così presenti, un canto ora appassionato ora diabolico degli strumentini – imprimendo ai tempi una varietà ed una vivacità che tenevano conto dell’urgenza tipicamente verdiana di stringere l’azione per afferrare l’ascoltatore dall’inizio alla fine. E gridargli la storia di Rigoletto padre- buffone-vittima di sé stesso e del suo mondo, ove l’innocenza (Gilda) la fatuità (il Duca) non sono burattini o simboli, ma persone vive che affrontano la vita sotto una diversa prospettiva. Perciò que- st’opera commuove dall’inizio alla fine ancora oggi: il dolore che l’attraversa e la brama di redenzione appartengono da sempre all’anima umana. Diretta da Chailly con impeto, l’opera non cala mai, piuttosto si dispiega attorno al nucleo portante dell’ispirazione. Data l’energia musicale non c’era bisogno di un allestimento che la spiegasse. Perciò le scene di Ezio Frigerio, nei contrasti fra luce ed ombra e nell’ambientazione ora fastosa ora tetra, sono risultate efficaci al pari della regia vivace, senza esagerazioni di Gilbert Deflo che hanno aiutato il cast a cantare. L’interpretazione pregnante di Leo Nucci è da scuola per ampiezza di registri emotivi e tenuta della voce; meno felice la Gilda di Andrea Rost, dalla resa alterna, mentre Giuseppe Gipali impersonava con freschezza il Duca come Marianna Pentcheva (Maddalena) e la voce ormai nobilmente verdiana di Marco Spotti, un credibile, tenebroso Sparafucile. Vero deuteroprotagonista, il coro ha accompagnato perfettamente l’opera nel suo domandarsi il perché della tragedia umana, ma pure la necessità dell’amore: da sempre la domanda fondamentale di Verdi. Spettacolo straordinario, pubblico educato e partecipe. THE RAKE’S PROGRESS Roma, Accademia Nazionale Santa Cecilia. Spumeggiante, ambiguo, drammatico. Tre aggettivi a definire la favola in tre atti di Stravinskij (1951) dal chiaro impegno metaforico, nel racconto dell’ascesa follia e caduta del libertino Tom Rakewell. Concepita a mo’ di un lavoro tradizionale – con recitativi accompagnati al cembalo, arie, duetti e così via – il lavoro supera il facile eclettismo con la freschezza, l’ironia, l’inventiva sonora fra scintillio e dramma – oscillando tra Faust e Don Giovanni – sino alla morte salvatrice di Tom e alla morale finale sulle lusinghe del Tentatore. Daniele Gatti ha diretto con piglio preciso l’ottima orchestra e il cast di cantanti-attori bravissimi (soprano fine Ellie Dehn, Rainer Trost, tenore spigliato, James Morris basso seducente) insieme al coro che ha cantato-recitato con sorprendente icasticità nei costumi luccicanti, primo Novecento, di Maurizio Balò, in una versione semiscenica diretta da Lorenzo Mariani con equilibrata vivacità. Successo vivo per un capolavoro riscoperto.