Un Nobel dimenticato?
«E mi piace la plastica» dice il verso d’una delle ultime canzoni di Jovanotti. Sembra un verso datato, anni Sessanta. Perché in quegli anni la plastica piaceva davvero, era la rivoluzione, il mito del progresso a portata di tutti: simbolo della democrazia del benessere, aveva fatto arrivare al popolo oggetti che prima erano esclusività delle classi più benestanti.
«La plastica è una sostanza casalinga – scriveva Ronald Barthes –, per la prima volta l’artificio ha di mira il comune, non il raro». Economica, resistente, senza bisogno di riparazioni, la plastica aveva soppiantato tinozze di zinco, oggetti d’uso quotidiano in leghe metalliche e legno. Secchi per la casa, contenitori per il cibo, scolapasta, spremiagrumi, giocattoli, assi per lavare (già allora si lavava ancora a mano) erano diventati di plastica.
Contenitori di zinco e di rame finivano come recipienti per giardini domestici e, nei balconi dei condomini, ospitavano piantine di basilico, rosmarino e origano. Oggetti in legno finivano nelle cantine e nelle soffitte. Allora si guardava a questa invenzione come alla scoperta del secolo.
Oggi non la pensiamo più così. La plastica è diventata un problema, per lo smaltimento, per le questioni dell’ecologia. La stessa parola “plastica” è ora diventata indice di banalità: diciamo che quella cosa, quel cibo «sembra di plastica» a mò di disprezzo. Dagli anni Venti agli anni Settanta non la pensavamo così. La plastica in quel periodo ebbe molto a che fare con l’Italia. Pullulavano ovunque fabbriche di materie plastiche (concedetemi una nota personale: anche mia mamma lavorava in una grande fabbrica chiamata Materie Plastiche). I nostri designer negli anni Venti depositarono più di 20 mila brevetti su oggetti fatti da materie plastiche, tanti di questi ora sono al Museo d’Arte Moderna di New York.
Poi negli anni Cinquanta il geniale chimico ligure Giulio Natta convinse il management della Montecatini a investite 1 milione di dollari per finanziare lo sviluppo di quello che, lui era certo, sarebbe stata la materia plastica che avrebbe rivoluzionato il mercato. Fu convincente. La Montecatini accettò la sfida. Il polipropilene isotattico fu così scoperto e ne fu lanciata la produzione industriale. Venne battezzato con l’azzeccato nome di Moplen.
Lo stabilimento Montecatini di Ferrara arrivò in quegli anni a produrre fino a più di 60 milioni di tonnellate di quel materiale. L’investimento fu ben ripagato. L’Italia aveva da dire la sua a livello mondiale in fatto di plastica, e Natta fu insignito del premio Nobel per la chimica nel ’63, proprio 50 anni fa.
Allora ci fu qualcuno che ardì scrivere che Natta «aveva inventato la materia che Dio s’era dimenticato di creare». Ma Natta, da noi, qualcuno lo ricorda? Probabilmente no. Invece è più plausibile che tanti lettori (non tra i giovanissimi) ricorderanno il simpatico Gino Bramieri, che del Moplen, a Carosello, faceva la pubblicità. Bramieri, mostrando uno alla volta i vari oggetti fatti di quella materia, avvertiva la gentile clientela con un tormentone che è ormai parte della cultura televisiva di quelli anni Sessanta: «La signora guardi ben, che sia fatto di Moplen!».