Un monito per tutte le generazioni
Uno dei canti tradizionali di questa giornata è estratto dal Salmo 137 e si intitola Im Eshkachech Yerushalaim che potete ascoltare su https://youtu.be/JagSsmXf9iM. Il titolo in ebraico vuol dire “Se mi dimentico di te, oh Gerusalemme!”. Questo salmo molto famoso infatti descrive la nostalgia del popolo ebraico esiliato a Babilonia per la sua città santa distrutta e ne esalta il legame viscerale che lega il popolo alla sua terra.
Il testo del brano eseguito recita: «Se mi dimentico di te oh Gerusalemme, la mia mano destra si dimentichi di me, si attacchi la mia lingua al palato se non ti pongo al di sopra di ogni mia gioia».
Questa celebrazione è la data più triste del Calendario Ebraico perché ricorda la distruzione dei due Santuari di Gerusalemme ad opera dei Babilonesi (576 a.e.c.) e dei Romani (70 e.c.) e cade al termine di tre settimane di lutto progressivamente più rigoroso, note con il nome di Ben Ha Metzarim (tra le ristrettezze) che iniziano con la data del 17 del mese di Tammuz, in cui ricordiamo l’apertura della breccia nelle mura di Gerusalemme.
Il 9 di Av si fa un digiuno da cibo e bevande e ci si astiene da tutto quanto possa dare piacere, inclusi i rapporti coniugali, il lavaggio del corpo e l’uso di scarpe di cuoio.
Questa giornata diventa però di monito per tutte le generazioni perché nel corso della storia, in questa data iniziarono varie altre deportazioni tra cui quella degli ebrei sefarditi dalla Spagna.
Ma l’esegesi biblica associa a questo giorno un altro evento drammatico della storia ebraica, narrato nel libro dei Numeri: l’invio di esploratori in terra di Israele all’uscita dall’Egitto (Numeri 13,1-15,41).
Questo libro è caratterizzato da una serie di lamentele del popolo ebraico verso Mosé. Giunti alle soglie della Terra Promessa, una parte del popolo convinse Mosè a mandare degli inviati in perlustrazione del territorio, per verificare se la realtà corrispondeva a quanto il Signore aveva promesso. Il resoconto della maggior parte degli esploratori fu drammatico, sostenendo l’impossibilità di accesso in terra di Canaan. A nulla valsero le obiezioni di Giosué e Calev, due degli esploratori, che invece promuovevano l’ingresso, in quanto la terra era molto buona e adatta alle caratteristiche del popolo, proprio come aveva detto il Signore. Il popolo, atterrito da questa spaccatura, reagì con un pianto che la tradizione definisce gratuito e per questo capace di far infuriare il Signore. Secondo i maestri, la notte era quella del 9 di Av. Il decreto del Signore fu di far vagare il popolo ebraico per 40 anni nel deserto, prima di farlo entrare in Terra di Israele, in modo che morisse la generazione che non aveva dimostrato fiducia in Lui. Fu decretato inoltre che quella notte di pianto immotivato trovasse nel corso della storia un motivo vero per cui piangere. Da qui impariamo quindi che la Salvezza ci arriva quando ci affidiamo alle promesse divine e soprattutto che a nulla vale il pianto gratuito, perché foriero di sventure ed insuccessi.