Un modello economico per uscire dalla crisi
In Friuli Venezia Giulia c’è un modello economico riconosciuto dalla Regione come strumento per l’uscita dalla crisi sia economica che sociale: è l’Economia solidale, che con la legge regionale del 23 marzo 2017 – “Norme per la valorizzazione e la promozione dell’economia solidale” – ha trovato una veste ufficiale e una sistematizzazione. La legge, frutto di un percorso “dal basso” partito nel 2012 grazie al Forum dei Beni Comuni – che riunisce sia associazioni che singoli cittadini – è stata presentata all’Università di Udine nell’ambito del Festival dello Sviluppo Sostenibile: un’iniziativa lanciata dall’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile, con oltre 200 eventi in Italia dal 22 maggio al 7 giugno, e a cui l’ateneo aderisce.
I principi di base del funzionamento dei “distretti di economia solidale”, esplicitati nella legge e illustrati dalla prof. Lucia Piani, sono «la solidarietà, la reciprocità, la sostenibilità, la coesione e la cura dei beni comuni». L’intento è quello di «riportare l’economia all’interno dei territori», così che tra i soggetti che vi vivono e vi operano si instaurino «relazioni e non semplicemente interazioni – ha spiegato il dott. Matteo Carzedda –: le prime sono reiterate e possono diventare stabili, le seconde sono sporadiche o casuali». L’idea di base è quella di mettere insieme questi soggetti nell’ottica della sostenibilità economica, ambientale e sociale, basando questi rapporti sul “patto di filiera”; una filiera che «nasce dai bisogni della comunità, usa risorse locali, valutando la sostenibilità sotto questi tre profili di ogni sua azione». Ciascuna filiera si esplica all’interno di un “distretto di economia solidale”: ne sono stati identificati 18, uno per ciascuna delle Unioni Territoriali Intercomunali in cui la Regione è suddivisa. Detta così sembra piuttosto astratta, e risulta difficile capire come si concretizzi: ma ci sono già diverse esperienze nate prima di questa legge e sulle quali la legge si è basata, e tre di queste sono state presentate per l’occasione.
La prima è stata quella illustrata da Enrico Tuzzi dell’omonimo Molino di Dolegna del Collio, che ha raccontato come la necessità di questa filiera sia appunto nata «da una necessità tecnica. Le materie prime di qualità sono sempre più difficili da reperire, hanno costi altissimi e non sono quindi accessibili a tutti, mentre i piccoli produttori si trovano stretti tra il cercare di inserirsi in una nicchia di fascia alta che non può accogliere tutti oppure svendere all’industria a prezzi che alla lunga li portano alla chiusura. Noi volevamo trovare una terza via». Così è nato quasi tre anni fa nell’alto isontino un patto tra il Molino, i produttori di grano, i panifici e altri negozi, ma anche gruppi di acquisto solidale o singoli cittadini. Ogni anno, prima della semina, in base agli ordini si stima quanto piantare; i “committenti” vengono tenuti informati su come va il raccolto, e poi nella confezione finale della farina compare in dettaglio come si è arrivati al prezzo finale di vendita. «Gestendo le cose a questa maniera – ha spiegato Tuzzi – siamo arrivati non solo a pagare anche 60 euro al quintale agli agricoltori, contro i 30 euro di media; ma anche a garantire ai rivenditori un margine del 30%, pur rimanendo in una fascia di prezzo accettabile per il consumatore. Che ora è peraltro più “educato”: se in un negozio vede prezzi altissimi per alcune farine speciali, o viceversa troppo bassi per essere sostenibili, capisce se c’è speculazione». Sono oltre 200 famiglie e 20 negozi ad essere coinvolti, pur senza aver investito in pubblicità: è bastato il passaparola.
Esperienza simile è quella del “Pan e farine del Friûl di Mieç” (pane e farina del Medio Friuli) di Mereto di Tomba, promossa dall’amministrazione comunale e illustrata dal sindaco Massimo Morettuzzo. Anche qui è nato un patto di filiera tra agricoltori, panificatori, rivenditori e cittadini; che ha portato alla creazione di una società cooperativa agricola di comunità, in cui anche i singoli possono entrare in qualità di socio sovventore. Peculiare in questo caso è stato il coinvolgimento degli attori istituzionali: diversi comuni del circondario, due banche che hanno fornito il capitale di partenza, l’Aiab, l’Università di Udine ed altri ancora. Il che ha permesso, ha ricordato Morettuzzo, un canale solido di interlocuzione con la Regione, in vista dell’inserimento del progetto nel Piano di Sviluppo Rurale 2014-2020.
Presenta poi notevoli sfide il territorio montano, dove – ha osservato Alberto Grizzo, del Consorzio delle Valli e Dolomiti Friulane – «l’intersettorialità è necessaria: se in pianura si può magari pensare di vivere di una sola filiera, qui non è così». Grizzo ha definito la montagna «un laboratorio di economia civile», dove «è necessario fare comunità e pensare nell’ottica dell’economia circolare. Basti fare il caso della lana delle nostre pecore: oggi non c’è più sufficiente richiesta da parte dell’industria tessile, e quella invenduta viene smaltita come rifiuto speciale con relativi costi. Ed è evidente che la cosa esula da qualsiasi principio di sostenibilità. Per questo è necessario pensare ad altre filiere, come quella della bioedilizia, che la usa come isolante». Un esempio tra tanti, che ha portato Grizzo a invocare un «mutualismo del profit e del no profit: perché il profitto, se orientato alla redistribuzione, è un beneficio per tutti».
Ma che posto occupano questi distretti, fortemente legati al territorio, in un mondo dove le relazioni – o quantomeno le interazioni, per dirla con Carzedda – sono invece globali? «È evidente che non ignoriamo questa dimensione mondiale – ha assicurato la prof. Piani – e che non pretendiamo di fare caffè in Friuli in nome dell’autoproduzione; ma ricondurre almeno questa parte dell’economia all’interno del territorio è soluzione obbligata di fronte ad una globalizzazione non sostenibile». Senza con questo escludere relazioni economiche e sociali con altri territori anche lontani, dove, perché no, potrebbero ricrearsi processi simili.«Mi scandalizza vedere gente che, in nome del mantra del “bio”, compra prodotti che arrivano dall’altro capo del mondo rifiutando quelli locali, solo perché privi di certificazione – ha affermato senza mezze misure Tuzzi –. Certo la nostra sfida è uscire ora da questa sorta di “riserva indiana”, intrinseca ad un modello che si basa sulla relazione diretta: fino a che punto possiamo crescere? Con quali modalità? In quali territori? Sono tutte domande a cui dovremo rispondere».