Un metano peggiore del carbone
A parità di energia prodotta, il gas naturale genera la metà di anidride carbonica del carbone. Così passare dal carbone al gas naturale è un bel passo avanti, sempre che le emissioni prodotte nell’estrarlo e trasportarlo incidano poco: è così per il metano che ci giunge per gasdotto da giacimenti tradizionali in Algeria, Libia, Azerbaigian e Norvegia ed anche per quello che giunge da rigassificare da simili giacimenti in Egitto, Libia, Qatar, Australia, Mozambico e Congo.
Non è così per il LNG che giunge per nave dagli Stati Uniti, estratto con la tecnica del fracking da rocce ricche di idrocarburi, perforando migliaia di pozzi e fratturando le rocce in profondità con acqua in pressione per raccogliere poi dal pozzo gas e petrolio, assieme ad acqua inquinata da far sparire in pozzi più profondi, rendendo sismiche zone prima tranquille.
L’utilizzo di questo metano emette complessivamente più gas serra dell’utilizzo del carbone: lo afferma un recente articolo di una autorevole rivista, l’Oil and Gas Journal: afferma che mentre il gas serra per tonnellata di gas naturale da giacimenti tradizionali in Africa, Medio Oriente e Sud America è pari a 600 kg di anidride carbonica, quello dell’LNG prodotto in Asia emette 1000 kg e quello prodotto in USA e Messico addirittura 1400 kg, più del carbone.
Una differenza giustificata dal dispendio di energia che il fracking richiede e dalle emissioni di metano, per il diffuso utilizzo di compressori e soprattutto per le perdite incontrollate di metano nell’atmosfera dal terreno fratturato e dai milioni di pozzi perforati ed abbandonati: il metano ha un effetto serra 80 volte maggiore della anidride carbonica.
Lo studio accomuna il Messico, che non usa il fracking, con gli USA, che grazie al fracking nell’ultimo decennio sono diventati i maggiori produttori di idrocarburi a livello mondiale: probabilmente con emissione per tonnellata ancora superiore e responsabili della accelerazione del cambiamento climatico che tutti avvertiamo.
La stessa rivista del petrolio ci regala la pessima notizia che la multinazionale Chevron sta investendo un miliardo di dollari per produrre grandi quantità di gas e petrolio da fracking nel sud dell’Argentina, nella località Vaca Muerta (nomen omen): come possiamo difendere il pianeta da questo uso dissennato delle sue risorse?
A livello internazionale è già operante la “carbon tax”: la Comunità europea ha stabilito che sia gradualmente applicata alle industrie che emettono anidride carbonica, compensando chi invece riesce a non produrla o ad assorbirla con le foreste: esiste un mercato tra chi acquista un diritto di emissione e chi lo vende, mercato che ne fissa ogni giorno il prezzo, ultimamente si aggira attorno ai 60 dollari a tonnellata.
È stato deciso che questa imposta sia presto applicata anche all’industria pesante come quella siderurgica, rendendo estremamente costoso l’acciaio prodotto con carbone negli altoforni ed incentivando la produzione del preridotto con idrogeno, problematica che investe anche l’ILVA di Taranto: per evitare concorrenza sleale, sarà applicata anche ai prodotti importati dall’estero in base alle loro emissioni durante la produzione, visto che l’atmosfera del pianeta è una sola.
Ultimamente si è deciso di applicarla anche alle emissioni dei trasporti marittimi, non si è ancora però parlato di applicarla a chi utilizza LNG considerando le emissioni alla produzione o, meglio, direttamente al gas liquido di importazione, in funzione del suo metodo di produzione: è però assolutamente necessario provvedere, una tale imposta praticamente azzererebbe il valore del gas da fracking e quindi ogni convenienza a produrlo.
Le armi che abbiamo a disposizione in Europa sono il portafoglio e fra poco il voto. Potremmo impegnare solennemente chi manderemo al prossimo Parlamento europeo, a sostenere come prima legge, se eletto, l’estendere al gas liquido importato la imposizione di una carbon tax in funzione delle emissioni di gas serra provocate nella sua produzione.
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