Un messaggio per l’Italia

A sette anni dalla visita di papa Wojtyla alla Camera dei deputati, una cerimonia, cui interviene il segretario di stato card. Tarcisio Bertone, ne ricorda l’attualità.
Giovanni Paolo II

A Montecitorio

 

Chi non li ricorda quei passi lenti, sostenuti dal bastone, coi quali Giovanni Paolo II aveva salito i gradini verso lo scranno più alto della Camera dei deputati? Era il 14 novembre del 2002 e il papa polacco, che sarebbe morto due anni e mezzo dopo, era già fortemente segnato dalla malattia di cui non aveva fatto mistero a nessuno. Non per questo era stata meno efficace la forza della sua persona e del suo messaggio anche in quell’occasione.

Un evento singolare, la prima visita di un pontefice al parlamento italiano, che a distanza di sette anni viene ancora ricordata con una cerimonia a cui interviene, per l’occasione, il segretario di stato, il card. Tarcisio Bertone, alla presenza del presidente della Camera attuale, Gianfranco Fini, e di Pier Ferdinando Casini, che all’epoca aveva accolto Giovanni Paolo II.

Un incontro che non poteva essere privo di riferimenti alle questioni aperte all’interno del dibattito culturale odierno, ma che certo non si è limitato a quelle.

A partire dalla lezione sulla sofferenza fisica che papa Wojtyla ha impartito a tutti dall’alto della sua personale testimonianza attraverso cui, ricorda il card. Bertone, «ci ha richiamato il valore del Vangelo della vita che impegna tutti, singoli, famiglie, associazioni e istituzioni, ad adoperarsi “affinché le leggi dello Stato non ledano in nessun modo il diritto alla vita”, anzi promuovano “la difesa dei diritti fondamentali della persona umana, specialmente di quella più debole”, sia essa embrionale o morente».

E come non ricordare un altro tratto ben marcato di Giovanni Paolo II, quello «di grande comunicatore, capace di dialogare in modo autentico e proficuo con i tanti interlocutori che ha avuto occasione di incontrare» con quell’amore alla verità che non può prescindere «dalla consapevolezza del proprio patrimonio culturale e umano. Se, invece, mancano le radici, difficilmente la pianta può slanciarsi verso il cielo o un popolo guardare al proprio futuro. Dove esiste incertezza di valori, diminuisce anche la capacità di accoglienza delle differenze e si spegne il desiderio di contribuire in modo positivo all’edificazione dell’intero corpo sociale», sottolinea il segretario di stato vaticano.

 

Altro argomento, la questione di una “sana laicità”, richiamata all’attenzione dallo stesso presidente della Camera: «Nella identità culturale dell’Italia non si può fare a meno di individuare il segno tangibile della presenza della Chiesa e del cattolicesimo – sostiene Fini –. È questo il senso di quella laicità positiva che ho richiamato in altre occasioni e che si sostanzia nel riconoscimento del ruolo sociale e della dimensione pubblica della religione».

E proprio questo sottolinea il card. Bertone: «Il contributo della Chiesa sui temi che riguardano da vicino la crescita e lo sviluppo dell’uomo non inficia, ma anzi arricchisce il principio di una “sana laicità”, perché si sforza di fornire un apporto originale alla costruzione del bene comune.
Questa passione per l’uomo, profondamente cristiana e sanamente laica, ha spinto Giovanni Paolo II a raggiungere ogni angolo della terra» e a mostrare, soprattutto ai giovani «il valore fondamentale dell’educazione per la costruzione della società». Da qui l’invito che lo stesso pontefice aveva fatto al parlamento italiano: «Una nazione sollecita del proprio futuro favorisce lo sviluppo della scuola in un sano clima di libertà, e non lesina gli sforzi per migliorarne la qualità, in stretta connessione con le famiglie e con tutte le componenti sociali».

 

L’ultima parte dell’intervento del card. Bertone porta i presenti al cuore della vicenda umana di papa Wojtyla. Passaggi toccanti che, da soli, dicono il valore, la forza, l’impegno che scaturiscono da quella croce, oggi tanto discussa: «Testimone nella sofferenza, amante della verità, educatore di giovani. Questo fu Giovanni Paolo II. Più di tutto, però, è stato un uomo di preghiera, un uomo che ha fatto del suo rapporto con il Signore, potremmo dire, il suo “pane” quotidiano. Non c’era incontro, discorso, o testo che il papa non preparasse prima nella sua cappella, davanti al Crocifisso, in un dialogo silenzioso, eppure carico di parole con Dio. Pregare significa riconoscere che la verità di sé si realizza nella comunione verso Dio, che però non può essere disgiunta da una comunione verso gli altri uomini.

Mi piace qui ricordare quanto disse una illustre donna cristiana del nostro tempo, l’italiana Chiara Lubich, recentemente scomparsa, a proposito di coloro che si lasciano ispirare dalla croce di Cristo: “Attraverso l’uomo, Dio si riaffaccia sul mondo, e ripete – sia pur in modo infinitamente inferiore ma simile – le azioni che fece un giorno Lui quando, uomo tra gli uomini, benediceva chi lo malediceva, perdonava chi lo insultava, salvava, guariva, predicava parole di Cielo, saziava affamati, fondava sull’amore una nuova società, mostrava la potenza di Colui che l’aveva mandato”.

«In altri termini, il recupero della dimensione trascendente della vita umana non lede l’impegno costruttivo dell’uomo nel mondo, anzi lo rende più proficuo». E questo «anche nel contesto attuale, in cui tante nuove sfide, prima fra tutte la sempre crescente multi-etnicità del Paese, si affacciano sul nostro orizzonte».
 

 

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