Un «mai più» destinato a fallire
L’emergenza continua e crescente degli approdi alle nostre coste meridionali aumentano anche la sensibilità alle potenziali criticità che si nascondono dietro a convivenze ben più durevoli nel tempo ed ormai parte del panorama quotidiano delle nostre città e Paesi.
La celebrazione di un periodo sacro all’Islam come il Ramadan acuisce differenze di tradizioni e mette a confronto costumi e diversità. Eppure, il lungo periodo di digiuno dei musulmani è, di fatto, diventato parte della presenza ormai notevole di altre culture e religioni sul territorio italiano. È ormai un dato di fatto, che pure si cerca a volte di ignorare o di non considerare adeguatamente.
Per questo l’intervento del nuovo sindaco di Padova, Massimo Bitonci, che ha stigmatizzato con un «mai più» la possibilità di mettere a disposizione della comunità musulmana luoghi pubblici, come palestre e sale, appare non solo inopportuno, ma addirittura avulso da una realtà che, come ci insegnano i decorsi della storia, non torna senza dubbio indietro.
L’intervento del primo cittadino di Padova ha, tuttavia, sortito un effetto incoraggiante. Ha messo, infatti, in luce quanto sia prezioso e positivo il cammino di integrazione che si è realizzato negli ultimi due decenni, nel corso dei quali la popolazione di fede musulmana è cresciuta in maniera importante nel cuore della regione e a Padova in particolare.
Emerge, infatti, il tipico modello italiano. A fronte spesso della latitanza delle istituzioni o, addirittura, di interventi inopportuni – e questo non vuole togliere nulla a quanto di positivo anche si fa – emerge un’esperienza quotidiana ormai più che ventennale, dove comunità, gruppi, associazioni, movimenti hanno intessuto un dialogo continuo con i cittadini di fede musulmana. Molti di questi sono legati alla Chiesa locale, altri rappresentano al meglio la spontanea aggregazione sul territorio che non desidera avere un colore né politico né religioso.
È indubbio come la Chiesa cattolica in questi anni si sia sentita interpellata direttamente e abbia dato vita a una «inedita cura pastorale», come l’ha definita il responsabile del Servizio diocesano per le relazioni cristiano-islamiche, don Giuliano Zatti. È un’azione fatta soprattutto di gesti e attenzioni da parte dei singoli, ma anche di iniziative a livello parrocchiale per favorire contatti con gruppi di musulmani. Dal Duemila sono iniziati anni di incontri, di comunicazioni, di scambio proficuo tra credenti delle due fedi, e in questo probabilmente la Chiesa che è a Padova si trova all’avanguardia. Tale politica pastorale – la scelta di instaurare rapporti con le comunità islamiche presenti sul territorio – è l’unica scelta possibile.
Come è stato giustamente fatto rilevare, oggi non ci sono alternative al dialogo, sia a livello politico che sociale istituzionale, sia tanto più in ambito cristiano. L’annuncio del Vangelo e la Chiesa stessa sono dialogici per loro natura: senza relazione perderebbero di significato. Una questione fondamentale riguarda i protagonisti dell’impresa dialogo. È necessaria la presenza di testimoni credibili e, allo stesso tempo, la realizzazione di esperienze sostenibili ed imitabili. Il contatto con persone di altre religioni, non tanto quelle che vivono lontane, ma soprattutto chi occupa lo stesso territorio è una sollecitazione sia ad una maggiore coscienza della propria fede sia all’apertura e all’ascolto dell’altro nella sua diversità.
La presenza di musulmani che pregano e che osservano un periodo di digiuno di quaranta giorni dall’alba al tramonto in estate, con il caldo e con l’ora legale, che allunga ulteriormente l’astinenza dai cibi e dalle bevande, è una sfida alla nostra società occidentale. Non è ragionevole tacciarla con termini spesso offensivi. Si tratta di esempi che ci interpellano e, per dirla con papa Francesco, ci fanno sentire scomodi, perché «cristiani da salotto».
Il cristiano è, quindi, chiamato ad essere sempre più consapevole di chi è o, meglio, di come dovrebbe essere e di come dovrebbe rivolgersi a coloro che credono diversamente.
Ovviamente si invoca la reciprocitàed è giusto che lo si faccia. A questo proposito spesso i media non danno abbastanza spazio a dichiarazioni o prese di posizioni dei leader della comunità musulmana.
«I nostri centri devono oggi aprirsi – ha affermato in questi giorni l’imam Layachi –, diventare luoghi di formazione per cittadini musulmani tesi al bene comune, a servizio del Paese. Siamo alleati nella costruzione della società del futuro, incontriamoci sul terreno dei valori come la famiglia, la solidarietà, la collaborazione, il rispetto della Costituzione». Proprio lo stesso imam e, con lui, altri in diverse parti d’Italia, non si stancano di invitare i propri fedeli a impegnarsi come veri cittadini italiani con gli stessi doveri e diritti di coloro che in Italia vi sono nati o che vi appartengano per discendenza immemorabile.
Il nostro Paese non è ancora arrivato, e non vi arriverà per molto tempo, alla situazione di Francia e Germania (800 luoghi di preghiera in Italia e più di duemila per ognuno dei due Paesi d’Oltralpe), ma le istituzioni e i loro rappresentanti, a qualsiasi partito appartengano, dovrebbero capire che l’Islam rappresenta un elemento ormai stabile del nostro panorama sociale e a questo dovrebbero sensibilizzare gli italiani non per sentirsi minacciati, ma per un futuro che sarebbe, senza dubbio, più ricco e variegato anche per la nostra opaca Europa.