Un Macbeth disumano

Torna a Firenze l'opera verdiana, data per la prima volta qui nel 1847. E torna nella sua prima versione, drammaticamente più incisiva di quella "parigina". Regia di Graham Vick, dirige James Conlon. Da non perdere
Macbeth al Teatro La Pergola di Firenze

Dopo oltre 160 anni ritorna al Teatro La Pergola di Firenze l’opera verdiana, data qui la prima volta nel 1847. Un ritorno lungamente atteso e necessario negli ottanta anni del Maggio musicale e in una contingenza che vede i lavoratori, a fine spettacolo, presentarsi al pubblico con uno striscione: «Salviamo il teatro», il che la dice lunga sulla situazione di crisi del glorioso Maggio ma anche della cultura italiana (cui purtroppo la politica presta un orecchio quanto mai debole).

La versione del Macbeth, 1847, si esegue assai raramente: in genere si preferisce quella “parigina” del 1865, più robusta come orchestrazione, con l’aggiunta del balletto, di un’aria straordinariamente psicologica della Lady “La luce langue”, il coro degli esuli rifatto ed altri “restauri”. Drammaticamente parlando però la prima versione è migliore: più netta, incisiva, punta più su Macbeth che sulla Lady.

Graham Vick perciò ha voluto attualizzare la tragedia scespiriana facendo di Macbteh un politico mafioso corrotto, che si fa di coca, circondato da donnine, poliziotti  con tanto di mitragliatrici, da un Lady sadica e dalle streghe-escort scurrili. Discutibile forse in alcuni momenti in cui i versi del librettista Piave non combaciano proprio con quanto accade sul palcoscenico (un esempio: il party che si va preparando a luce piena, mentre Banco sta per essere ucciso e canta «Come dal ciel precipita l’ombra più sempre oscura…»), pure  ha il pregio di voler cogliere quello che è il messaggio verdiano di sempre, ossia l’indagine sul fascino del potere e del male che portano alla morte, come Macbeth dice  morendo, ma senza pentirsene veramente.

Quello che la regia di Vick mette in scena con un certo gusto di “mostrare tutto”, lo dice pienamente la musica di Verdi. Cupa, spietata, terrorizzante e piena di pathos, ma anche alla fine di uno sguardo alto sulle miserie umane, sulla schiavitù del male e il suo fascino oscuro. Verdi osserva, non giudica e inventa  momenti altissimi come la “scena del sonnambulismo” con la povera Lady cieca e arsa dai rimorsi, il finale II con il coro – l’umanità – preso dal timore del male e la vittoria sfolgorante dei buoni, ma dopo aver cantato gli incubi, il cinismo, i rimorsi della coppia reale.

Molto bravi, come attori-cantanti, Dario Solari, credibile Macbeth, e il Banco nobile di Marco Spotti, diseguale nel canto, difficile, bisogna pur dirlo, la Lady di Raffaella Angeletti, ottima attrice. La direzione dell’esperto James Conlon, star della bacchetta mondiale, non ha riservato una lettura particolarmente profonda, ma ha puntato sull’effetto di certi momenti orchestrali – percussioni e ottoni, in particolare –, regalando momenti di pathos, come nel preludio iniziale.

Si replica il 25. Da non perdere.

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