Un Macbeth alla Kurosawa

Fino a 9 giugno, al teatro Lirico di Cagliari l'opera di Verdi che furoreggiò a Firenze e non fu adeguatamente apprezzata a Parigi, con un cast valido e la direzione profonda e rifinita di Renato Palumbo
Teatro lirico di Cagliari

Si è ispirato al film Il trono di sangue di Akira Kurosawa Micha van Hoecke, ballerino, coreografo e regista per l’allestimento del verdiano Macbeth, in scena dal 31 maggio al 9 giugno al Teatro Lirico di Cagliari. Costumi decisamente da samurai, mosse rigide tipiche dei guerrieri orientali, espressioni fra il feroce e l’ardito, quasi astratte, balletti geometrici e stilizzati di sintetica efficacia. Il medioevo europeo trasportato in un altro medioevo, barbarico, dalle luci dure.

La scelta è straordinariamente opportuna, cristallizza visivamente la cristallizzazione di Macbeth e della Lady nei loro propositi di omicidio: li fa diventare maschere geometriche di morte.

È appunto questo il nocciolo del dramma scespiriano, musicato da Verdi nel 1847 per Firenze e poi ripreso nel 1865 per Parigi: un grande successo a Firenze, una incomprensione da parte della critica nella versione francese, tale da provocare la reazione del musicista, accusato ingiustamente di non capire Shakespeare.

In realtà, il primo incontro verdiano col drammaturgo inglese dà nel Macbeth buoni, anzi ottimi frutti. La partitura, in quattro atti, è oscura, terrorizzante a volte, misteriosa e magica. Il fascino demoniaco del male, la setedel potere generano dolore e morte su chi sta intorno alla coppia fatale, ma poi il male si riversa sulla stessa coppia e produce una notte interiore ancor più cupa e cieca, perché ineluttabile e angosciante.

Verdi compone una musica che cambia diversi registri, dal sadico al nostalgico, dal pauroso all’epico. Momenti culminati sono il duetto del primo atto “Fatal mia donna”, la grande scena delle apparizioni nel terzo, il banchetto drammatico del secondo e la scena del sonnambulismo dell’ultimo atto. La musica è bella, densa, viva: il grande cuore di Verdi copre di una infinita pietà il dolore e la crudeltà umana, piangendo con l’umanità per le sue sofferenze, ma aprendosi alla fine alla vittoriosa speranza di un mondo diverso.

Per una partitura così ricca di sfumature e di significati, ci voleva una direzione profonda, rifinita. Attenta ai dettagli, equilibrata nel rapporto buca e palcoscenico. Renato Palumbo è direttore verdiano di razza. Non gli sfugge nessun accento, timbro strumentale, sfumatura psicologica, anzi accentua i ricami dei legni, i guizzi degli archi, il suono spesso dei violoncelli e la presenza degli ottoni, grave e prorompente, in particolare quella della prima tromba, in genere poco sottolineata. È una direzione  che sa usare bene i “tempi” allargando o stringendo secondo le necessità drammatiche, col risultato che si entra nel mondo verdiano-scespiriano con totale partecipazione emotiva.

Il cast – si è ascoltato il secondo – conta voci maschie come il baritono Angelo Veccia – che finalmente canta senza troppe pause per respirare, ma sa “legare” bene i suoni -, il soprano drammatico di agilità Anna Pirozzi, una autentica attrice e una voce d’acciaio e il Banco profondo di Enrico Giuseppe Iori.

L’orchestra è mobile sotto la cura scrupolosa di Palumbo e manifesta una notevole capacità di variare colori, passando dal brillante al tragico, dal cupo al malinconico, senza perdere di ritmo e di slancio.

Un’edizione da non perdere. Fino al 9 giugno.

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