Un incontro tra generazioni
Per chi arriva a piedi, dalla Piramide di Caio Cestio, alla sede del Macro Testaccio di Roma è inevitabile imbattersi nel Monte dei Cocci (testae), la discarica di età imperiale che raccoglieva i resti delle anfore olearie in un territorio molto prossimo al porto fluviale del Tevere. Anche l’osservatore più distratto resta stupito dall’accumulo ordinato di frammenti che vanno a comporre lo spazio di un’intera collina; eppure quella montagna di cocci può diventare un’immagine evocativa di un presente storico profondamente segnato dalla frammentazione, uno dei tratti che segnano la storia del presente e della nostra cultura.
Così i componenti dell’Associazione Terre Incognite, della quale è presidente un’artista, Mariannita Zanzucchi, hanno voluto cogliere il pretesto della scritta just across the street – basta attraversare la strada – trovata casualmente in quel luogo storico, laddove si danno indicazione ai turisti per segnalarne l’accesso più appropriato. Le diversità culturali, linguistiche, religiose, ci interpellano quotidianamente rischiando di costituire un’enorme accumulo senza una progettualità che proponga degli attraversamenti, degli spazi di dialogo. Questa è la sfida che l’arte raccoglie: comporre le diversità perché diventino una ricchezza, una molteplicità che si compone in unità.
La mostra, che ha raccolto le opere di 60 artisti, di varie nazionalità e secondo le più diverse espressioni – pittura, scultura, fotografia, ma anche performance, installazioni e video – ha trovato spazio nell’enorme navata della Pelanda, un esempio di archeologia industriale di grande suggestione che era parte dell’ex Mattatoio. Un luogo quindi fortemente connotato e che, inevitabilmente, richiama e rimanda a situazioni di sofferenza, almeno in termini metaforici. Il filo conduttore della mostra che si è tenuta dal 14 al 21 ottobre 2017 ha voluto dare voce a questo richiamo e privilegiare quindi questi riferimenti. Attraversare la strada, costruire dialoghi, non è facile; occorre mettersi in gioco, fare spazio, accantonare, almeno per un momento, progetti e aspettative personali. Vuol dire abbattere muri, barriere generazionali o culturali. Una delle grandi sfide del nostro presente è certamente la diversità, l’incontro con popoli e culture che sono portatrici di una ricchezza della quale non sempre abbiamo consapevolezza. Nel nostro presente siamo chiamati, in questo senso, a compiere scelte importanti che possono scavare più a fondo fossati o cucire relazioni.
La diversità dei linguaggi e degli strumenti appare come l’articolazione di un discorso, di un dialogo a più voci, che vuole aprirsi al pubblico, suscitare reazioni, cambiamenti. La pervasività delle immagini ci interroga poi quotidianamente; mai come oggi, ciascuno a suo modo, può avere uno studio cinematografico in tasca. I nostri cellulari hanno archivi infiniti di video, di foto, che vengono divulgati alla velocità della luce e che rischiano di svuotare di senso la nostra quotidianità. Paradossalmente la disperata volontà di documentare tutto pare rivelare che, nella nostra cultura, ciò che non viene fotografato e divulgato non esiste. Come per l’uomo del Neolitico, le immagini hanno per noi la forza di un rituale, vogliono dimostrare che esistiamo, nelle infinite varianti dei selfies, che abbiamo compiuto un viaggio, sfidato o raggiunto delle mete. I Visual studies hanno reso evidente come non sia pensabile disgiungere l’opera d’arte dagli studi sul potere delle immagini e quindi dal legame con tutte le scienze e in primis con l’antropologia.
Il pictorial turn codificato da J.W.T. Mitchell segna una svolta nella considerazione delle immagini e in una realtà come la nostra, “perennemente connessa”, è sicuramente un segno dei tempi la possibilità di valutare come si venga a costituire un network di relazioni che accrescono in modo esponenziale la capacità parlante delle immagini. Qualcuno ha definito la nostra società totemica e animistica con un bisogno profondo di far valere le ragioni del corpo accompagnate da un’esigenza di immersività capace di generare profonde suggestioni emozionali. Per questo la performance è la modalità che più si avvicina all’esigenza di vivere un rituale che ha la capacità di dar voce ed espressione alla dimensione del corpo e che al Macro Testaccio, sembra acquisire una forza prepotente perché è in relazione ad una condizione di vita, quella dei migranti, che è una sorta di ‘spellamento’ da parte di chi, nel presente, ha perso il legame con le proprie radici, non ha più nulla, e non possiede un futuro. Per questo la performance di Lucia Palmero, Reflex, ha saputo coinvolgere i presenti e ha fatto rivivere in modo empatico le loro storie drammatiche. Tra le opere presentate – impossibile citarle tutte – un’attenzione particolare va forse rivolta a quella di Franco Crocco, Avanzi di galera, realizzata con pacchetti di sigarette – l’unico oggetto che le carcerate possono trattenere e che hanno utilizzato come materiale artistico – dentro il carcere di Rebibbia e che va ad aggiungersi a quella di altre carcerate presenti in mostra con due lavori.
Ma forse ciò che emerge come constatazione palese da parte di chi ha visitato la mostra è proprio il comporsi armonico di un’evidente diversità di linguaggi, quello dei giovani artisti provenienti sia dal Liceo Artistico che dalle istituzione più diverse come il College of Art di Edinburgh, dalle Accademie di Belle Arti di Firenze, Torino, Napoli, Perugia, Roma e Aant (Accademia delle arti e nuove tecnologie di Roma) e quello di artisti che hanno alle spalle un percorso professionale consolidato. La varietà e molteplicità di linguaggi si è trasformata qui in una ricchezza, in una corale polifonica, che emerge dal superamento del limite.
La mostra è nata in collaborazione con il Dipartimento Sport e politiche giovanili di Roma Capitale e si è inserita nella 13° Giornata del Contemporaneo, indetta da Amaci, l’Associazione musei d’arte contemporanea italiani.
(photo credits Giuseppe Distefano)