Un impresa degli ultrà

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Genova non è solo grisaglie e crinoline, pizzi preziosi e profumo di lavanda, severi scagni sul porto e saloni con stucchi dorati. È la città più anglofila d’Italia, dove la gente è discreta, gelosa e schiva nei rapporti interpersonali, ma cosmopolita, aperta e tollerante grazie ai rapporti commerciali che ne hanno fatto la storia. È città di cultura (nel 2004 è stata la capitale europea della cultura) ma anche del sapere fare, del tirarsi su le maniche. In questa città, solare e segreta ad un tempo, dove tutto si fa sul serio, anche il tifo calcistico ha tinte forti. La rivalità fra genoani, la tradizione storica, e sampdoriani, quelli arrivati dopo, non ha paragoni con le stracittadine di Milano, Torino o Roma. Solo qui una sconfitta avversaria è gustata al pari di una vittoria dei propri colori: la sconfitta della Samp, nella finale di Coppa delle Coppe del maggio ’89, esaltò a dismisura ben 8 mila tifosi rossoblu che scesero in strada con caroselli canzonatori, sfottò e cori volgari, trombe all’impazzata suonate davanti ai ritrovi dei blucerchiati. Quella festa fuori misura fu considerata dai sampdoriani un’onta da lavare col sangue. Per il regolamento dei conti oltre 400 ultrà, Fossa dei Grifoni da una parte e Ultras Tito dall’altra, si diedero appuntamento in via Fereggiano, la sera del 16 maggio, dopo aver nascosto in zona con cura spranghe, mazze, biglie, catene. Il pestaggio feroce lasciò sul terreno dieci feriti, sette auto distrutte, cui seguirono diciannove arresti: eppure molti ritennero che i conti erano saldati solo in parte. I moralisti ed i benpensanti scaricarono subito la colpa chi sui giornalisti che fomentavano la rivalità, chi sul difficile clima sociale generato da quei 55 mila posti di lavoro persi in breve tempo con la recessione del porto. Di certo il crescente disagio sociale trovò nel tifo calcistico uno sfogo consolatorio, alimentato dalle posizioni di vertice conquistate dalle due squadre cittadine nel campionato italiano. Fu proprio la avveduta capacità di lettura in chiave sociale di un consigliere comunale, Marco Tullo, a far uscire la città dalla spirale di violenza innescata dai tifosi. Lanciò la sua provocatoria proposta a ultrà, questura, ed ammi- nistrazione comunale: un’addizionale dello 0,20 per cento sul lordo degli incassi delle due squadre allo stadio Marassi allo scopo di favorire la costituzione di una commissione consigliare impegnata a prevenire ogni forma di violenza negli stadi e la costituzione di una cooperativa con sampdoriani e genoani insieme che si occupasse delle pulizie del luogo più caro ad entrambi: lo stadio Ferraris. Non furono pochi coloro che interpretarono la proposta come un premio, elargito senza nemmeno una gara d’appalto, a persone che andavano invece, a loro giudizio, pesantemente punite. Forte del carisma di cui godeva nell’ambiente per il suo passato di ultrà genoano, incontrò l’entusiasta disponibilità dei ragazzi delle curve opposte. Lo stadio, vissuto come contenitore di gioia e di sfogo – spiega Tullo, ribattezzato ironicamente assessore agli ultrà -, poteva diventare anche un’occasione di lavoro, sulla base della quale costruire una rete di rapporti con le istituzioni e la città. Vinto lo scetticismo generale, il 2 dicembre ’92, otto giovani poterono imbracciare per la prima volta la ramazza sui gradoni dello stadio. L’iniziale sprovvedutezza gestionale (niente sede, solo un numero di cellulare come riferimento, verbali e bilanci dimenticati o approssimativi, scarso spirito imprenditoriale) portò nel ’94 ad un buco di bilancio tanto grave da ipotizzare la chiusura della cooperativa. Solo la strenua volontà di un paio di capi ultrà delle due fazioni, fra quelli arrestati per le violenze a via Fereggiano, permise di uscire da quel vicolo cieco: grazie alla loro insospettabile volontà di apprendere e di impegnarsi nel lavoro la cooperativa Genova Insieme ha saputo non solo far quadrare i conti, ma persino imporsi sul mercato vincendo appalti importanti. In dieci anni i ragazzi della cooperativa hanno ottenuto lavori non solo per conto del comune di Genova, quali la raccolta differenziata nei mercati o in città o la pulizia della piscine, ma anche quello del carcere minorile, la gestione di parcheggi in città ed al porto, dove svolgono anche servizi di manutenzione e pulizia, fino all’appalto per la consegna ed il montaggio dei mobili per tutta la Liguria di una importante azienda come l’Ikea. I turni domenicali sono naturalmente coperti solo da chi ha la propria squadra in trasferta, allo stadio non si può mancare, ma il fatturato, il più alto fra le cooperative cittadine, ha raggiunto i due milioni e mezzo di euro l’anno, con un utile pari a 225 mila euro, ed oltre 400 ragazzi hanno finora potuto lavorare nella cooperativa. La metà dei dipendenti sono persone svantaggiate o disabili: la morte per overdose di un ultrà, avvenuta nel ’93, fece spalancare le porte della cooperativa a tossicodipendenti e ad exdetenuti. Il solido, ed a volte pernicioso, spirito di gruppo che infiamma le fazioni di ultrà ha aiutato queste persone a non sentirsi più sole nel loro disagio. La guerra in Bosnia ha visto gli ultrà genovesi in prima fila nel raccogliere denaro e materiale per le persone colpite, così come per Emergency in Kurdistan. Ma anche lo stadio è ora più vivibile: il dialogo apertosi con le istituzioni ha smorzato a Marassi gli episodi di violenza fra tifosi e contro le forze dell’ordine, e l’attiva campagna contro il razzismo negli stadi da loro promosso ed i gemellaggi con altre tifoserie permette di azzardare un contagio positivo.

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