Un giovane su due non lavora: il dramma dell’Italia

Il primo trimestre del 2014 segnala il peggior tasso di disoccupazione mai registrato dall’Istat a partire dal 1977. Le cifre presentate richiedono terapie d'urto, mentre permane l’incognita sul piano “Garanzia Giovani” che dovrebbe favorire l’occupazione e l’orientamento nel mondo del lavoro
Giovani

È dal 1977, che l’Istat ha cominciato a rilevare in maniera sistematica i dati sulla disoccupazione che hanno toccato il picco massimo nel primo trimestre 2014. Il numero delle persone disoccupate raggiunge la vetta di 3 milioni e 487mila unità con un secco aumento di 212 mila rispetto all’anno precedente.

Il tasso della disoccupazione giovanile (convenzionalmente la fascia tra i 15 e i 24 anni di età) sale al 46 per cento e arriva a toccare il 60,9 per cento nel Meridione.  Ma prestiamo attenzione ai dettagli. Questo valore si raggiunge misurando la quota dei giovani disoccupati sul totale di quelli attivi e cioè sia quelli occupati che gli stessi disoccupati. Da questo calcolo sono, perciò, esclusi i giovani inattivi, cioè quelli che non sono occupati e non cercano lavoro perché, ad esempio impegnati negli studi. Un totale di 4 milioni e 405 mila che definisce un tasso di inattività giovanile pari al 73,6 per cento su base nazionale. Allargando l’osservazione sulla fascia di età dai 15 ai 29 anni, il rapporto Istat “Noi Italia 2014” evidenzia un numero di oltre 2 milioni di giovani “neet”, acronimo anglosassone che indica coloro che non lavorano, non studiamo e neanche cercano un’occupazione perché sfiduciati.

«Non raccontiamoci storielle, stiamo strisciando sul fondo». Con la consueta schiettezza il presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, ha commentato i dati Istat precisando nella sua analisi che «la crescita italiana da anni è di un punto inferiore alla media Ue e oggi non ci sono più i consumi interni. È questa la lotta da fare, far ripartire la domanda interna». Su questa linea si è mosso il governo Renzi ipotizzando l’aumento mensile degli 80 euro, solo per una determinata fascia di lavoratori. Ma l’effetto volano sulla ripresa rischia di non esserci per l’aggravio di tasse e spese su altri fronti.

Anche il decreto Poletti, duramente criticato da una parte del sindacato, vuole incoraggiare gli imprenditori ad assumere a termine nuove leve con cinque rinnovi in tre anni senza alcun obbligo di stabilizzazione. Misure che saranno messe sotto controllo dal governo stesso, secondo le intenzioni dichiarate, per verificarne gli effetti positivi in termini di aumento dell’occupazione e questo in tempi assai brevi.

Il piano per il lavoro (Jobs Act) annunciato da Renzi entro luglio non sarà certo una passeggiata se solo si considera la pressione costante di diversi settori a rimuovere ogni limite alla flessibilità in uscita (leggasi “licenziamento”) come indispensabile leva per smuovere un mercato del  lavoro avvinghiato, come provano i tanti dossier delle aziende che non ce la fanno depositati  sul tavolo del ministero dello Sviluppo economico. Per Confindustria restano comunque decisivi gli interventi diretti ad eliminare i vincoli Ue agli investimenti per le infrastrutture.

A proposito di infrastrutture, una lettura radicalmente alternativa ai dati Istat arriva, invece, dai cosiddetti neo keynesiani, come Luciano Gallino che reputa indispensabile un ruolo diretto dello Stato come facilitatore di assunzioni, tramite investimenti mirati e un salario vicino a quello medio (intorno ai 15.000 euro lordi l'anno)» indirizzati a piccole e medie industrie, cooperative e aziende pubbliche, aventi competenze nei settori di urgente utilità pubblica e alta intensità di lavoro: «quindi niente grandi opere, bensì gran numero di opere piccole e medie. In Italia settori con queste caratteristiche sono quelli che si occupano di riassetto idrogeologico, di ristrutturazione delle scuole che violano le norme di sicurezza (la metà), di ricostruzione degli ospedali obsoleti (forse il 60 per cento)».

Nel frattempo, i lavoratori dei call center italiani scendono in piazza per difendersi dalle costanti delocalizzazioni all’estero e, chiuso il capitolo delle elezioni europee, l’ Etihad Airways ha presentato il piano di investimenti su Alitalia con in previsione due mila e 500 esuberi. In tale contesto macro economico il successo del programma “Garanzia Giovani” (Youth Guarantee), partito a maggio 2014 con un capitale investito di un miliardo e mezzo di euro, assicurato in buona parte dai fondi Ue, risulta compromesso. L’intento è quello di offrire ai disoccupati e neet fino a 29 anni, un servizio di orientamento capace di offrire un percorso qualificato di inserimento nel mondo del lavoro o di reinserimento in ambito formativo, previa registrazione sul portale www.garanziagiovani.gov.it . Entro 4 mesi si dovrebbe essere convocati. Ad oggi risultano oltre 60 mila iscrizioni che dovrebbero condurre ai primi colloqui entro giugno.

Come osserva il parlamentare e giurista Pietro Ichino, intervistato dalla rivista specializzata dell’Enaip (ente nazionale di istruzione delle Acli), «gli assessori regionali al lavoro non sono ancora in grado di governare direttamente il personale dei centri per l’impiego, che dipendono dalle province, ora “commissariate”, in attesa della riforma costituzionale che abolirà questo livello di amministrazione. Se non saremo capaci di dare un forte colpo di reni, vedo un serio rischio che l’Italia finisca col non essere in grado di utilizzare una parte consistente del finanziamento europeo».   

 

  

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