Un giornalismo dialogico per parlare di immigrazioni
«Dal 2015 la situazione delle migrazioni forzate, per fame e guerra, specialmente dai Paesi africani e del Medio Oriente verso l’Europa, si è intensificata al punto che si è arrivati a parlare di “emergenza umanitaria”. Davanti a questo fenomeno, che ha enormi risvolti geopolitici, economici e antropologici, le risposte della comunità europea sono state diverse e, talvolta, sorprendenti e la chiusura delle frontiere, decisa da alcuni Paesi dell’Est, ha suscitato non poche domande negli analisti geopolitici, facendo crescere l’attenzione dei media». Cristina Montoya, docente di Sociologa della comunicazione presso l’Istituto universitario Sophia, guarda alle nuove migrazioni dalla prospettiva dell’informazione. I media e le reti sociali, spiega la studiosa colombiana citando il sociologo Zygmunt Bauman, «non parlano d’altro oggi che della crisi migratoria che travolgerebbe l’Europa, preannunciando il collasso e la fine dello stile di vita che conosciamo, conduciamo e amiamo».
In Ungheria, Slovenia e Serbia sono state erette delle barriere e altri Paesi dell’Unione europea vorrebbero seguirne l’esempio. In Italia non pochi politici parlano di “invasione”, ma guardando ai numeri – nel 2016, ad esempio, in Italia sono arrivati circa 170 mila migranti – il senso di accerchiamento di cui qualcuno parla non trova conferma. Non a caso, ricorda il giornalista e scrittore Luca Attanasio, una ricerca sull’indice di ignoranza sui dati relativi all’immigrazione nel 2014 ha visto l’Italia al primo posto. A fronte di una presenza di migranti e rifugiati tutto sommato minima rispetto ai quasi 60 milioni di cittadini, per colpa di una comunicazione incentrata sulla paura, la percezione degli italiani rispetto alla presenza degli stranieri è sproporzionata. Lo stesso avviene in Europa. Il milione e poco più di stranieri giunti sul territorio dell’Unione nel 2015, in realtà equivale allo 0,2 per cento della popolazione europea.
Ci troviamo dunque di fronte ad un mondo dell’informazione che, più che informare, rischia di scatenare quelli che Montoya definisce attacchi di «panico morale», sottolineando soprattutto i pericoli per i valori e gli interessi sociali.
Come fare giornalismo in tale situazione? Come raccontare i drammatici fenomeni che si verificano, inserendoli nelle giuste prospettive, nazionali e mondiali? Una proposta viene da NetOne, una rete internazionale di giornalisti, operatori dei media e comunicatori coordinata dal giornalista ungherese Pal Toth, che ha deciso di parlare di immigrazioni cercando di ricostruire i fatti, di ascoltare le voci dei protagonisti, di cercare e raccontare la verità, di confrontare e verificare i dati. Con un progetto originale, promuovendo una ricerca di “azione partecipativa”, un gruppo di comunicatori ha dunque cominciato un percorso che ha toccato e toccherà alcuni dei luoghi simbolo delle migrazioni in Europa e nel mondo. La prima tappa è stata a Budapest, in Ungheria, seguita da Atene (Grecia), Varsavia (Polonia), Man (Costa d’Avorio) e Pozzallo, in Italia. Adesso, questo piccolo gruppo di cronisti e studiosi della comunicazione è a Beirut, in Libano, un Paese che, nonostante le indicibili difficoltà e le reiterate sofferenze legate alle guerre del passato e alle durezze del presente, riesce a mantenere un dialogo e un equilibrio tra le diverse minoranze religiose e sociali. Il presidente Michel Aoun, appena eletto, è per norma costituzionale un cristiano maronita. Il capo del governo è invece un musulmano sciita, quello del Parlamento è un musulmano sunnita. Il Libano è una tra le rarissime democrazie del Medio Oriente ed è nella regione l’unico Paese ad avere un presidente cristiano. Un tale equilibro, di per sé precario, rischia di essere messo ancor più in difficoltà dall’enorme afflusso di rifugiati siriani: oltre un milione ufficialmente, ma si parla di un milione e mezzo, che si sono stabiliti nel Paese dei cedri in piccoli e grandi campi profughi, sognando di tornare in Patria, o in appartamenti e garage, anelando a un visto per raggiungere altri continenti.
Rispetto a quanto avviene nel mondo, spiega Stefania Tanesini, responsabile dell’Ufficio stampa della cittadella internazionale di Loppiano e membro del board internazionale di NetOne, «la nostra è una piccola esperienza». Ma questa esperienza, che a fine gennaio arriverà a Bruxelles, in Belgio, nei vari Paesi in cui viene proposta, diventa la cornice che mostra e mette in evidenza storie e protagonisti locali, nelle difficoltà ma anche negli slanci della solidarietà. Si tratta di un giornalismo “dialogico” che mette insieme le diverse parti in campo, che favorisce il confronto anche quando ciò sembra impossibile, che cerca punti in comune per trovare soluzioni condivise e condivisibili. È un giornalismo, spiega Michele Zanzucchi, direttore della rivista Città Nuova e anch’egli membro del comitato internazionale di NetOne, fatto di qualità come la modestia, la semplicità, la sobrietà, la sincerità… Come ha ricordato Zanzucchi riprendendo le parole di papa Francesco all’Ordine dei giornalisti italiano poche settimane fa, il ruolo di chi fa informazione è anche quello di ricordare al mondo che «non c’è conflitto che non possa essere risolto». E il giornalismo può aiutare a trovare le giuste soluzioni.