Un finale di partita con ritmo

«Ho sempre considerato Beckett non uno scrittore del teatro dell’assurdo ma un grande poeta della difficoltà del vivere dell’uomo». Così Glauco Mauri, insieme a Roberto Sturno, si è accostato al celebre testo cardine e paradigmatico del Novecento, diretto da Andrea Baracco. Al Teatro Eliseo di Roma

Infinite sono le versioni viste di quest’opera emblematica di Samuel Beckett, che, pur nella costrizione di intoccabilità del testo dettata dall’autore, continua a prestarsi ad allestimenti e a visioni che moltiplicano le prospettive di lettura. In ogni caso ci fa ridere e ci commuove. Sempre. Forse più che altri testi beckettiani Finale di partita (tragedia cosmica e comica, che risale al 1957) è ancora lì davanti a noi, e dobbiamo arrancare per tenere dietro a questa visione dolente e grottesca della fine del mondo, che è anche fine di uno spettacolo e fine di una partita a scacchi. Agli scacchi allude il titolo, e di mosse si parla più volte nel rigoroso contesto di battute che hanno ciascuna la prima finalità di sbocciare come risposta alla precedente e per suscitare una replica, non essendoci altre prospettive nella quotidiana fine del mondo in cui galleggiano i personaggi.

In una stanza chiusa, con solo due finestrelle in alto sulle pareti, Hamm e il suo servo Clov aspettano pazientemente, ma anche con irritazione, di assistere all’ultimo atto di questa farsa del vivere nell’agghiacciante constatazione che «Nessuno può aiutare nessuno». Il rapporto di sopraffazione-obbedienza che unisce il paralitico e cieco Hamm al malfermo quanto perennemente agitato Clov, trova corrispondenza nel legame amore-odio che intercorre fra i menomati genitori di Hamm, in un gioco di specularità che, al limite, fa dei due protagonisti gli opposti volti di uno stesso individuo. Quei genitori, rinchiusi nei celebri bidoni della spazzatura, e ogni tanto interpellati, vengono ricacciati giù, più giù, in uno sforzo di liberarsi dalle loro moleste memorie. A Nell, la madre, spetta la frase più celebre della commedia: «Non c’è niente di più comico dell’infelicità». E a Clov spetta un’altra frase tremenda, tra le molte emblematiche, che apre mondi: «Sono talmente curvo che vedo solo i miei piedi, e tra le gambe un po’ di polvere nerastra».

Ma al regista Andrea Baracco, più che queste formule risolutive, gli interessa il ritmo dell’approccio della fine. Assistendo alla sua bellissima messa in scena con protagonisti Glauco Mauri e Roberto Sturno – un duo perfetto nei ruoli di Hamm e Clov –, avevo l’impressione che lo spettacolo fosse durato meno del previsto. Da qui il sospetto, impossibile, che il regista avesse operato qualche taglio. La sensazione di questa rappresentazione asciutta e sobria, intensa e pregnante di nuovi significati, era dovuta alla inusuale scorrevolezza dello spettacolo, dal gioco scenico all’insegna del ritmo dato all’inesplicabile ma coinvolgente mistero di questa condanna a una reciproca schiavitù senza sviluppo e senza speranza di due personaggi simboli di verità, di disperazione e, forse, di fede. Il servo e il padrone vivono nell’inferno, in una casa isolata, ma fuori c’è, dice il testo, l’altro inferno, il mondo distrutto.

Baracco riesce a suggerirci gradatamente l’idea di quell’altro orrore, certamente peggiore di quello interno. L’avanzare in alcuni momenti di Clov verso il proscenio rivolgendosi alla platea crea l’effetto di rappresentarsi ravvivando così i rapporti di complicità con il pubblico e di incrementare la disperata, straziante comicità di non poche situazioni e battute rendendo così l’implicita metateatralità del testo. E Sturno è ottimo nell’interpretare la monotonia del cerimoniale e i momenti di ribellione del servo sfuggente e recalcitrante. Il vecchio cieco, invece, richiede un interprete che è Edipo, Lear, Amleto – come ebbe a scrivere un critico –. E questo Mauri lo fa egregiamente anche per l’accumulo esperienziale con questi personaggi da lui interpretati nella sua lunga carriera e di cui sembra trovare traccia nella sua voce, nelle sue espressioni, nei suoi minimi gesti. Forse risulta meno odioso e tirannico di quanto Hamm invece dovrebbe esserlo, dato il mostruoso grumo di egotismo che relaziona il tutto alla sua persona.

Nella scena claustrofobica di uno squallido e metallico stanzone che ricorda un rifugio antiatomico, eliminati i proverbiali bidoni (che andrebbero invece mantenuti, come da didascalia, per quello che rappresentano) sono qui sostituiti da due gabbie, che scorrono e rientrano da un muro, dove sono rinchiusi i genitori, entrambi nudi, quasi a ricordarci che così nasciamo e moriamo. E i due vecchi dentro (non importa se più giovani dei protagonisti), a placare con un biscotto – come ricompensa elargita per raccontare sempre una stessa storia – la loro fame eterna.

“Finale di partita” di Samuel Beckett, regia Andrea Baracco, con Glauco Mauri e Roberto Sturno, e Elisa Di Eusanio e Mauro Mandolini; scene di scene e costumi Marta Crisolini Malatesta, musiche Giacomo Vezzani. Produzione Compagnia Glauco Mauri Roberto Sturno. A Roma Teatro Eliseo, fino al 15/10.

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