Un filo d’erba e la palma

Lei in un eremo umbro, lui in un ospedale dell’Africa equatoriale. Non si incontrarono mai Albert Schweitzer e Sorella Maria. Eppure li unì una intensa amicizia spirituale
albert schweitzer

Campello sul Clitunno, nel cuore dell’Umbria, richiama subito le celebri fonti cantate da Virgilio e Carducci. Ma non è di queste che mi accingo a parlare, né delle altre attrattive storico-artistico-naturalistiche del luogo, bensì di un personaggio dei nostri tempi che ne è stato l’anima.

 

A Campello, infatti, Sorella Maria (al secolo Valeria Pignetti) diede vita a un’esperienza monastica innovativa basata sul ritorno alle fonti originarie del francescanesimo. Da questo eremo, oggi aperto a tutti i sinceri cercatori di Dio, con una dimensione ecumenica che va oltre il cristianesimo, questa donna di origini piemontesi fu per oltre un decennio in rapporto epistolare con un altro anziano speciale, nato come lei nel gennaio 1875: Albert Schweitzer, il celebre medico-musicista, premio Nobel per la pace, che profuse ogni sua energia tra i malati e i lebbrosi di Lambaréné, nel Gabon.

 

Fu la religiosa a scrivere per prima a Schweitzer il 14 gennaio 1950, in occasione del suo settantacinquesimo compleanno: da quel momento si sviluppò un filo delicato e prezioso che sarebbe proseguito anche oltre la morte dei due protagonisti – lei nel 1961, lui quattro anni dopo –, coinvolgendo sia la comunità dell’eremo, sia i collaboratori del dottore, alcuni dei quali avrebbero visitato Campello.

 

Evidentemente, anche solo attraverso lettere e senza mai poter «varcare la soglia», come ebbe a scrivere Schweitzer, si era creata una comunione speciale fra due grandi anime del XX secolo che si sostennero a vicenda pur non avendo avuto mai modo di incontrarsi. D’altra parte sono molti i punti in comune tra colei che si definì un umile “filo d’erba” e la “palma”, in cui raffigurò il pastore e medico alsaziano: una fede semplice, pura, essenziale, di grandi aperture ecumeniche («Un cristiano – sintetizzava Schweitzer – è uno che ha lo spirito di Cristo. Questa, è l’unica teologia»); la capacità di una accoglienza profonda agli altri e a tutte le espressioni del creato (il rispetto per la vita dell’uno equivaleva alla veneratio vitae dell’altra); e infine la passione per la musica di Bach, le cui note Schweitzer, suonando anche a tarda notte il suo organo dopo una giornata sfibrante di lavoro, faceva riecheggiare nella foresta equatoriale.

 

Entrambi, inoltre, pur vivendo in luoghi nascosti e periferici rispetto ai centri pulsanti della civiltà occidentale, furono spiritualmente vicinissimi all’uomo nei suoi bisogni reali, sempre meno riconosciuti: lui su una ribalta pubblica d’impegno per la pace, lei con la preghiera, il sacrificio e una rete di contatti e amicizie sia con alcune delle voci più innovative della Chiesa del tempo (da Ernesto Bonaiuti a Primo Mazzolari sino a Giovanni Vannucci), sia con figure come quella di Gandhi (che l’avrebbe ricevuta durante la sua visita a Roma nel 1931).

 

Nel loro carteggio queste esistenze parallele, appassionate della vita in tutte le sue espressioni, ebbero modo di incontrarsi in libertà, offrendosi vicendevolmente frammenti del proprio vissuto, delle proprie speranze, anche delle proprie fatiche (entrambi alle prese con crescenti problemi fisici). Ma ogni loro lettera trasmette soprattutto la delicatezza dei loro animi, la bellezza delle attenzioni che si riservavano. Anche per questo offrono un messaggio prezioso a questa nostra epoca di comunicazioni facili sotto l’aspetto tecnologico, ma che difficilmente riescono a far incontrare veramente le persone.

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