Un elogio (meditato) del cronista

Mentre in Senato si sta varando una strana legge che condanna i giornalisti e assolve i direttori, si contano a più di 100 cronisti morti per il loro lavoro nel 2012
giornalismo

Siamo proprio un Paese originale. Il fatto: in Parlamento, dopo epiche battaglie mentre il Paese volta le spalle al Palazzo, i senatori sono riusciti a impegnare centinaia di ore di lavoro pagate da noi contribuenti per inserire in una legge, ora passata alla Camera, una norma assai ambigua, con la quale si consente il carcere per il reato di diffamazione a mezzo stampa solo ai giornalisti, ai cronisti, salvando i direttori dalla prigione. La legge, che come si sa è chiamata pure "Salva Sallusti", il direttore de Il Giornale che rischia il carcere per alcuni articoli pubblicati sul suo giornale di allora, Libero, aveva ricevuto anche il parere negativo del governo, ma è stata egualmente approvata. Così, lunedì 26, i giornalisti protestano contro quella che viene definita una "legge-bavaglio".

Su Città Nuova non siamo soliti difendere la nostra categoria a mezzo stampa. Meglio la discrezione e il lavoro fatto seriamente. Ma questa volta una parola forse è necessaria, per sottilneare alcune cose che forse non tutti sanno:

a) che il mestiere di giornalista ormai è un mestiere difficile e pericoloso. Non solo perché si rischia la propria pelle – proprio ieri l’Istituto internazionale della stampa ha fatto sapere che secondo i suoi calcoli i giornalisti uccisi nel 2012 nell’espletamento del loro lavoro sono stati più di cento –, ma anche perché le condizioni economiche difficili spingono i cronisti ad accettare qualsiasi lavoro e ad essere più permeabili alle pressioni dei loro datori di lavoro, direttori in primis;

b) che il giornalista ormai non è un privilegiato. I giovani che accedono ora alla professione sono quasi tutti condannati ad essere parte di un "nuovo proletariato" della penna. Venire a sapere che certi siti di giornali blasonati pagano i pezzi scritti per il web meno di 5 euro fa accapponare la pelle;

c) che all’interno della categoria "giornalisti" esistono differenze sostanziali: si va dal "professionista" iperprotetto con assistenze stratosferiche e privilegi d’ogni genere, al cronista "pubblicista" che non ha né diritti né protezioni. Anche noi giornalisti dobbiamo renderci conto che alcuni di noi debbono lasciare dei privilegi ed altri invece acqusitare nuovi diritti. E soprattutto che la nostra categoria rischia di essere una casta corrotta e permeabile ai flussi di privilegi e denaro, proprio come accade per la parallela, amata-odiata casta dei politici;

d) che la rivoluzione digitale ha cambiato radicalmente il nostro lavoro, e lo sta ancora cambiando. La rapidità richiesta ai colleghi è spesso e volentieri fonte di errori, perché non c’è più né il tempo né la cultura di controllare le fonti di una notizia. La rivoluzione digitale ha trasformato il giornalista specializzato in carta stampata, in un cronista che deve scrivere pezzi per carta, video, radio e web! I linguaggi però sono diversi, e quindi la confusione di linguaggi rischia di aggravare la superficialità di tanti, troppo articoli o servizi;

e) infine, che la comunicazione s’è "democratizzata", e quindi che ogni cittadino può trasformarsi coi new media e i social network un giornalista senza patente. Andrebbe quindi studiata di nuovo l’intera professione, cercando di adattarne le regole alle mutate condizioni politiche, sociali e tecnologiche.

(In una foto in alto, il ministro Severino nella sede della Federazione nazionale della stampa italiana discute delle nuove norme sulla diffamazione con i rappresentanti dei giornalisti e il segretario generale dell'organizzazione sindacale Franco Siddi)

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