Un duro giudizio sui mali del mondo

Il 18 giugno José Saramago ha lasciato questo mondo o, se si preferisce, è tornato a farne parte, polvere della terra.
Saramago

Dal 1947, anno del suo primo romanzo (Terra del peccato), al recentissimo Caino, l’opera del Premio Nobel per la letteratura 1998, ha attraversato più di mezzo secolo e le tracce sono significative: Memoriale del convento (1982), L’anno della morte di Ricardo Reis (1984), La zattera di pietra (1986), Il Vangelo secondo Gesù Cristo (1992), Cecità (1995).

 

Nato da una famiglia contadina di modestissime condizioni, marxista convinto fino all’ultimo, senza per questo cedere ai canoni del “realismo socialista” (la combinazione di elementi del realismo ottocentesco con temi della propaganda sovietica), ha narrato storie in cui realtà e immaginazione si fondono e si arricchiscono vicendevolmente, lasciando emergere le contraddizioni dell’umanità.

 

Così è per La zattera di pietra, in cui il racconto della prodigiosa spaccatura del crinale pirenaico e del viaggio attraverso l’oceano di una neonata isola iberica costituisce l’occasione per una paradossale metafora del mondo contemporaneo. E nel Vangelo secondo Gesù Cristo, la dimensione interamente ed esclusivamente terrestre del Nazareno diventa lo sfondo su cui proiettare i dubbi personali e ideologici sull’esistenza di Dio.

 

Nei suoi romanzi le vicende vengono sempre raccontate da una prospettiva straniata, effetto della presenza, nella voce che narra, di un sottile – seppure evidente – distanziamento ironico: in esso Saramago introduce il suo giudizio etico. Giudizio duro sui mali del mondo, siano essi le violente dittature che hanno preceduto la seconda guerra mondiale (come nell’Anno della morte di Riccardo Reis), o la drammatica situazione dei miseri e degli emarginati (come i profughi palestinesi , al cui riguardo un’osservazione dello scrittore provocò il ritiro di tutti i suoi libri nello Stato di Israele) o più generalmente la condizione di sopraffazione nella quale vive l’uomo moderno.

 

Di fronte al dolore umano, soprattutto se di alcuni individui per colpa di altri, Saramago non trattiene il suo sdegno. Non che la voce s’innalzi in un grido scomposto o in petulante retorica, al contrario la sua tagliente ironia s’insinua tra le certezze del mondo chiedendo che esse, se tali, siano costruite su ragioni più autentiche e solide.

 

Da qui l’impersonale soliloquio con Dio, l’inquietante quesito su come Egli possa permettere la sofferenza e il male. Un male visto, forse, solo da una parte, con angolazione troppo ideologica. Al di là di alcuni giudizi di fronda, l’opera dello scrittore portoghese resta nel corso del secondo Novecento espressione altissima dell’inquietudine dell’uomo contemporaneo e profonda riflessione sui problemi della realtà in cui vive.

 

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