Un dono che diventa possibilità di incontro
Conversazione col maestro triestino Claudio Zorini, per anni musicista del teatro Colón di Buenos Aires.
Claudio Zorini, quest’uomo affabile dalla voce grave, occhi celesti e capelli ondulati, è nato nel 1931 a Trieste, città emblematica per la letteratura, da Umberto Saba e Italo Svevo a Claudio Magris e Susanna Tamaro, dove visse, tra gli altri, James Joyce, e dove son sempre presenti il mare e la frontiera.
Erano gli anni della Seconda guerra mondiale e, verso i dodici o tredici anni, Claudio trovava sempre il modo per sgattaiolare alle prove del Teatro Verdi, tanto che finirono per dargli un permesso per non cacciarlo via. Lì, un giorno, dopo aver ascoltato le sinfonie Quinta e Sesta di Beethoven dirette da Rudolf Moralt, decise: «Voglio essere direttore d’orchestra».
Aveva trovato la sua strada nel timbro degli strumenti e nella loro armonia. Fu uno dei due momenti che segnarono la sua infanzia. L’altro accadde durante un bombardamento nel 1943, quando si sentì spinto ad aprire il Vangelo e lesse il testamento di Gesù: «Padre, che tutti siano una cosa sola come io e te». «Ma come è possibile – si domandò in quel momento tra le lacrime – che Dio ci chiami all’unità e tutto nel mondo sia odio e distruzione?». Quello stesso anno, nella città di Trento, in circostanze simili, Chiara Lubich scopriva in quella pagina di Giovanni il suo ideale di vita.
Claudio Zorini mi riceve con la moglie Fanny nel loro appartamento in un quartiere residenziale di Buenos Aires. Ricorda sempre l’impressione che gli provocava la bora nella sua città natale e come dopo il suo passaggio, col cielo terso, la luce splendeva nelle acque del golfo, mentre all’orizzonte si profilavano le Alpi. Racconta delle sue passeggiate per il lungomare («fino al castello di Miramare, costruito per ordine di Massimiliano d’Austria, sposato con Carlotta, che finì i suoi giorni in Messico») e il rito del caffè nei bar viennesi della città.
Suo padre lavorava nei cantieri di Monfalcone. Era capitano della marina e dopo un viaggio a Buenos Aires, nel 1948, chiamò sua moglie e i figli a stabilirsi in Argentina. A diciott’anni, avendo ormai finito le magistrali e parte della sua carriera nel conservatorio, Claudio era già in America. Oltre allo studio della composizione musicale, amava la montagna. In effetti godeva della solitudine e della natura, per cui trovarsi di colpo in una città così estesa e popolosa come Buenos Aires lo mise abbastanza a disagio. Ebbe prestigiosi insegnanti, alcuni bravi compositori, mentre guadagnava qualche soldo suonando l’organo in chiesa per gli sposalizi e lavorando come correttore presso una editrice di musica. Scriveva anche critiche musicali per i giornali («quell’attività mi permetteva di frequentare i più importanti teatri ed essere vicino ai grandi direttori, che sono i migliori libri di studio per chi ama la musica»). Fu discepolo di Teodoro Fuchs, «un meraviglioso ebreo tedesco che aveva vissuto ad Istanbul e che finì come direttore d’orchestra presso la città argentina di Córdoba, vero umanista, uomo di molteplici conoscenze, generoso al punto da donarmi parecchi libri e il mio primo frac»).
Della sua carriera in diverse città argentine, Claudio Zorini ricorderà sempre Karl Böhm, Erich Kleiber, Rafael Kubelík, Furtwängler, Karl Richter, Claudio Abbado, Riccardo Muti… E le voci, tra tante, di Renata Tebaldi e Mario Del Monaco, oltre a un rapporto cordiale con gli eccezionali Placido Domingo e Alfredo Kraus.
«Per me – confessa a un certo punto – la musica è sempre stata un dono di Dio e la possibilità di un incontro meraviglioso con le persone». Tra le sue grandi emozioni c’è quella di aver diretto, nel 1972, l’orchestra e il coro della città argentina di Santa Fe alla morte del direttore lettone Olgert Bistevins.
Una tappa decisiva nella sua vita iniziò quando (già sposato e con i primi due figli) venne nominato direttore del conservatorio e del coro di San Fernando del Valle de Catamarca, nelle Ande del Nord argentino, dove prese contatto col Movimento dei focolari e conobbe la spiritualità dell’unità. Fu per lui una risposta agli aneliti sorti nell’infanzia. Da quel momento iniziò ciò che lui definisce una progressiva conversione: «Io, che ero un solitario e un po’ brontolone, avvertii la necessità di andare incontro agli altri in modo amichevole. Non mi fu facile all’inizio, perché qualcuno confondeva la mia apertura evangelica con la debolezza. Fino a che riuscii a trovare l’equilibrio giusto: dovevo unire nella mia vita la musica e la spiritualità, senza però perdere la mia autorità come direttore».
Zorini ha avuto modo di dirigere orchestre in diversi Paesi ed è stato direttore di importanti cori, ma «il teatro Colón, pur con tutti gli inconvenienti burocratici e sindacali, è stato il mio paradiso». Quando venne convocato, nel Natale 1962, rimase sorpreso e perplesso: più che la lirica – spiegò – la sua specialità era la musica da camera e sinfonica, e per di più non era un concertista di pianoforte. Il direttore del teatro di allora, il maestro Caamaño, gli rispose che di lui sapeva tutto e che lo voleva al Colón per l’opera lirica. Quindi, a partire da quel momento, ai suoi amati Bach, Brahms e Mahler, si unirono Puccini e Verdi.
Cosa gli piace di più di Mozart? «Tutto, ma nell’opera principalmente il Don Giovanni, Così fan tutte e le Nozze di figaro». E Wagner? «Wagner è stata una grande passione della mia gioventù ma, col tempo, mentre si manteneva l’ammirazione per la sua genialità, che ha cambiato la storia della creazione artistica, è andato scemando un po’ il mio fervore per quella sorta di filosofia fatta musica».
Sebbene non si sia sentito mai attratto particolarmente dal jazz e dal folk, non vuole tralasciare di sottolineare il suo interesse per la musica dodecafonica e contemporanea. La conversazione si sposta su figure come Alban Berg e il suo Wozzeck, Arnold Schönberg, Carl Maria von Weber, Olivier Messiaen, Pierre Boulez e Luigi Nono, per finire con gli argentini Alberto Ginastera e Juan Carlos Paz.
Alla fine Zorini sintetizza così i suoi obiettivi: «Andare verso l’unità coi compositori attraverso le opere, con gli interpreti e con il pubblico». Per lui, la musica è dono di Dio che va goduto, ma impone un arduo compito di responsabilità. Un’istanza di amoroso dialogo col Creatore.