Un Don Carlo esplosivo
Michele Mariotti è ormai un direttore adulto musicalmente, capace di passare da Meyerbeer a Gluck, da Rossini a Puccini e a Verdi sempre con una nota personale. Mai scontato nel gesto, nella chiarezza espositiva, nella linea del canto e nel fraseggio di una orchestra che, come la sua del Comunale di Bologna, è calda, sincera, fisica.
Il Don Carlo, da lui diretto – oggi l’ultima replica – nella versione curata da Verdi per il 1884 in quattro atti e in italiano, risente di inflessioni del Requiem, di Aida e prepara all’Otello. La melodia è ancora calda, sottolineata da certi passaggi per violoncelli ora patetici ora affannati, la linea del canto – sopranile e tenorile – si fa più espansa, quella del basso – l’Inquisitore, Filippo II – scende a meandri oscuri fra terrore e dolore, e quella baritonale – Posa – è morbida. Riecheggiano temi consueti: l’amicizia virile, l’amore infelice tra Elisabetta e Carlo, la gelosia di Eboli, la malinconia disperata del re e in più quel conflitto sociale e istituzionale – Chiesa e Stato- ruggente e violento, specchio dell’aria tesa degli anni immediatamente successivi all’unità italiana.
Un capolavoro sul quale Verdi ritornò più volte e che ad ogni ascolto si rivela denso di intuizioni e di scoperte. Mariotti ha privilegiato il lato esplosivo, energico, del dramma con terribili scoppi orchestrali, ritmi affannati, colori sul nero e il grigio, assecondato dalla bravura degli ottoni, degli archi gravi e del coro dal timbro così “umano” (i sei bassi, deputati fiamminghi). Le voci sono pregnanti. Il Don Carlo di Roberto Aronica è un tenore squillante (troppo?), il Rodrigo di Luca Salsi è forse il migliore del cast per morbidezza e virilità d’emissione e attenzione ai dettati di Verdi, il soprano Maria Josè Siri è una Elisabetta dalla grande tecnica espressiva come l’Eboli di Veronica Simeoni. L’Inquisitore di Luiz-Ottavio Faria è finalmente un basso capace di scalare le note più gravi con sicurezza e il Filippo II di Dmitry Beloselskiy altrettanto misurato nell’unire pathos a violenza.
E’ un mondo, anzi il mondo, quello che Verdi scruta sino in fondo nel Don Carlo e non si finirebbe mai di confrontarne le diverse interpretazioni (da quella malinconica di Giulini, a quella sinfonica di Abbado, da quella drammatica di Muti a quella “melodiosa” di Pappano…), per entrare ogni volta in uno spettro diverso e fascinoso.
Fascinosa non sembra a Bologna la regia di Henning Brockhaus, ferrigna e quasi scolpita in un cupa essenzialità, forse per dare spazio all’immensità della bellezza musicale in una edizione da ricordare.