Un cuore nella tenebra
Sembra avere visto e raccolto su di sé tutto l’orrore e la sofferenza del mondo, James Nachtwey. Quella causata dalle guerre, dai retaggi dell’odio, dallo sfruttamento, dall’umiliazione, dal degrado fisico e morale, dagli interessi di pochi per fame di potere e di ricchezza, dalla privazione del cibo e della libertà. La sua testimonianza visiva racconta meglio di molte parole il dolore, la distruzione, lo smarrimento, e tutta quella gamma di sentimenti riconoscibili negli sguardi immortalati dal suo obiettivo, nei gesti, nella fissità degli occhi, nelle bocche incapaci di pronunciare parole. Fra i più coraggiosi fotoreporter del nostro tempo Natchwey, animato da una grande tensione morale, ha girato il pianeta imbattendosi in conflitti armati, genocidi e tragedie, convinto, come lui stesso ci dice, che la forza della fotografia sta nella sua capacità di evocare ciò che è l’umano… E, se usata bene, può essere un ingrediente potente nell’antidoto alla guerra… In un certo senso – continua – se una persona assume il rischio di mettersi nel mezzo di una guerra per comunicare al resto del mondo ciò che accade, egli sta cercando di negoziare in favore della pace. Classe 1948, cresciuto nel Massachussetts, Nachtwey decide di diventare fotografo dopo essere rimasto colpito dalle immagini della guerra in Viet- nam e dei movimenti per i Diritti Civili. Trasferitosi a New York nel 1980 inizia la sua attività di freelance per varie riviste, con un primo servizio in Irlanda per documentare lo sciopero della fame di alcuni militanti dell’Ira. Da allora non si è più fermato. Il suo intero itinerario degli ultimi vent’anni è ora ripercorso nella bellissima mostra di Reggio Emilia che presenta in 14 sezioni oltre 160 fotografie di questo indiscusso maestro dell’arte fotografica gravemente ferito un anno fa da una granata a Baghdad. L’allestimento evidenzia l’evoluzione nel tempo di Nachtwey del modo di lavorare e di presentare il suo lavoro: dal voler riassumere l’evento in una sola immagine e trasmettere l’essenza di un avvenimento, al privilegiare gruppi di foto che rechino maggiori informazioni sul contesto fornendo una struttura narrativa. Abituati come siamo a leggere titoli, a scorrere veloci le immagini, ad ascoltare senza sentire, e andare oltre senza soffermarci, le fotografie di Nachtwey ci obbligano a sostare e a guardare. Entrarvi dentro è come stare in scena a teatro: si è chiamati in causa, così come lo è stato il fotografo. Cerco di diventare il più possibile responsabile di fronte al soggetto – ha scritto -. L’atto di essere uno che viene da fuori e che punta una macchina fotografica può essere una violazione dell’umanità. Il solo modo in cui posso giustificare il mio ruolo è di avere rispetto per la situazione difficile dell’altra persona. La misura in cui io faccio ciò è la misura in cui divento accettato dall’altro, e la misura in cui posso accettare me stesso. Vere icone della nostra epoca, le sue fotografie sono anche autentiche opere d’arte. Lo si può costatare dagli inconsueti tagli nell’inquadrare, o dal modo in cui compone l’immagine nella quale si avverte l’ansia di essere vicino al soggetto, di toccare fisicamente la persona che soffre, entrare dentro le sue ferite fisiche e morali. Lo si costata, inoltre, dalla maestria dei suoi accordi tonali sia nel bianco e nero, sia nel vibrante colore. L’immagine, ad esempio, in un centro per lavoratori migranti delle township di Soweto, sembra un quadro caravaggesco: un interno con una finestra e il volto illuminato di un nero mentre guarda, accovacciato verso fuori. La luce che entra disegna ombre per terra e illumina una lattina, rivelando la povertà del luogo. Vorrei che il mio lavoro – ha scritto – potesse appartenere alla storia visiva del nostro tempo per radicarsi nella nostra memoria e coscienza collettiva. Queste fotografie sono la mia testimonianza. Ho dato conto della condizione delle donne e degli uomini che hanno perduto tutto, le loro case, le loro famiglie, le loro braccia e le loro gambe, la loro ragione. E al di là e nonostante tutte queste sofferenze, ciascun sopravvissuto possiede ancora l’irriducibile dignità che è propria di ogni essere umano. LA COLLEZIONE BETTMANN Ultimi giorni per poter ancora ammirare ulteriori sguardi sul mondo e sulla storia. Le centocinquanta fotografie della imponente collezione dell’Archivio Bettmann sono altre icone della nostra memoria collettiva: come quella che ritrae degli operai seduti in pausa pranzo sulla trave sospesa del grattacielo del Rockfeller Center di New York. Bibliotecario a Berlino negli anni Trenta, Otto Bettmann comincia a raccogliere e conservare fotografie con una passione che, nell’arco di sei decenni, e dalla Germania agli Stati Uniti – dove fuggì dall’occupazione nazista portando con sé due bauli pieni di stampe fotografiche, libri e film -, si trasforma in un grande sforzo culturale. Crea così uno dei primi sistemi per condividere immagini con altri. Consapevole del potere delle immagini e della loro inestimabile importanza come documento storico, Bettmann dedicò tutta l’esistenza ad arricchire la sua collezione ora acquisita da Corbis.