Un criterio per giudicare

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La rivista Criterio è la più importante fra le riviste culturali dell’area cattolica in Argentina. Fondata alla fine degli anni Venti, ha attraversato indenne il Novecento, mentre altre iniziative culturali sorgevano e si spegnevano, diventando un punto di riferimento culturale e anche, specialmente nei momenti più difficili della storia argentina, morale. Oggi è fra le riviste che, pur conservando una identità molto precisa, meglio interpretano il dialogo tra culture diverse. Rivista non istituzionale, non organica ad alcuna forza politica, economica o sociale, è fra i soggetti culturali che pongono, senza remore e con costante serietà, anche le domande più scomode, cercando però, in apertura con tutti, le possibili strade che conducono alle risposte. Vale la pena di chiedersi le ragioni di questa longevità e di questa vitalità. Ne parliamo con José María Poirier, direttore di Criterio dal 1998. Nato a Buenos Aires 56 anni fa, è critico letterario. Dottor Poirier, cerchiamo si svelare la formula di Criterio, cominciando dagli inizi: in quale contesto è sorta la rivista? Criterio è nata nel 1928, a Buenos Aires, da un gruppo di laici cattolici. Era un momento in cui pesava molto, nell’ambiente intellettuale argentino, l’impronta di Maritain e di altri pensatori sociali francesi cattolici. Il primo direttore è l’avvocato Atilio Dell’Oro Maini; già ambasciatore presso la Santa Sede, è un uomo ancora giovane e, per allora, culturalmente aperto, che ospita nella rivista anche scrittori non cattolici. A quel tempo infatti si tendeva a parlare di cultura cattolica, al singolare, mentre oggi è più facile sentire usare l’espressione plurale, cioè si parla di culture ispirate al cristianesimo. Dell’Oro Maini ha dato una impostazione laica a Criterio, nel senso ecclesiale della parola. Ebbe subito successo? Sì, ma non poté evitare una crisi economica, anche dovuta ad una posizione di chiusura che la rivista assunse con i direttori successivi e che fu molto criticata da chi aveva sposato la rivista proprio per il suo carattere innovativo. Per salvare la situazione, nel 1932 prese la direzione un sacerdote, nato a Parigi da famiglia corsa, mons. Gustavo Franceschi; uomo molto colto, che ogni anno prendeva la nave e faceva i suoi viaggi in Europa. Dove? Non a Roma, certamente, ma in Francia. In quei primi anni Trenta scrissero personaggi come Jean Guitton, Chesterton, Julian María, Graham Green. La sensibilità di allora era forse quella che François Mauriac espresse dicendo: Io non sono uno scrittore cattolico, sono un cattolico che scrive, intendendo dire che, da scrittore, professava la fede cattolica. I tre grandi fronti sui quali la rivista si spende erano già allora quello culturale, quello politico e quello ecclesiale. A chi si deve l’apertura al dialogo interreligioso da parte di Criterio? Franceschi lascia la rivista nel 1959, l’anno della sua morte, al suo vice-direttore, l’attuale cardinale Jorge Mejia, che allora era un giovane sacerdote, insegnante di lingua e religione ebraica: fu lui ad aprire in questo senso. Mejia, che aveva ricevuto minacce per ragioni politiche, venne chiamato a Roma da Paolo VI, che lo incaricò di lavorare proprio nel dialogo fra cristiani ed ebrei. Per Criterio la sua direzione fu importante anche dal punto di vista dello stile. Mejia fu seguito da un altro sacerdote, che ancora oggi partecipa alla riflessione di Criterio, Rafael Braun, cui succedette il politologo Rafael Floria. Poi è toccato a me. Meglio un sacerdote o un laico come direttore? Si è sempre discusso; ci sono le due tendenze. Per quanto riguarda i rapporti con la Chiesa argentina, mi sembra che la rivista sia sempre stata più rispettata che amata, perché molte volte ha avuto un pensiero critico; anche nei confronti dei vescovi argentini; o dell’Università Cattolica Argentina per il suo indirizzo eccessivamente liberista. Criterio è da molti considerata una rivista piuttosto liberale, nel senso politico. Ha sempre difeso la posizione per la quale non c’è un modello cattolico in politica, e aderisce ad una idea di democrazia repubblicana, il che può presentare alcune difficoltà. Per esempio, una importante scrittrice e saggista della sinistra argentina, Beatriz Sarlo, ha scritto un libro diviso in tre capitoli; in quello dedicato al pensiero cattolico, prende come filo conduttore Criterio, e ne sottolinea l’importanza soprattutto nel periodo di fine anni Sessanta, inizio dei Settanta; fino ad allora – scrive – era importante per la sua posizione misurata, di centro. Successivamente la società si polarizza violentemente tra destra e sinistra, e l’opinione pubblica sembra perdere interesse per la democrazia – si diceva allora: la democrazia è solo formale -; anche la Chiesa compie due scelte, dividendosi tra una sinistra radicale e una posizione molto conservatrice; allora, ammette la Sarlo, una parola equilibrata – com’era quella di Criterio – non interessava più.Ma oggi lamenta proprio di essere stata antidemocratica e di avere lasciato cadere una parola importante. Lei come vede quel periodo? Lungo tutti gli anni Sessanta e Settanta Criterio si mantiene su una linea di difesa della democrazia. È difficile raccontarli adesso, ma io che li ho vissuti da studente, me li ricordo come anni molto violenti: nessuno badava alla democrazia formale. Sono gli anni che precedono il ritorno di Peron. Anche lui aveva due facce, per così dire: una di sinistra e una di destra; e anche se io continuo a pensare che è sempre stato di destra, in effetti ha fatto una specie di doppio gioco; tutti i gruppi politici, in quella situazione, lo hanno fatto: tutti volevano tenere, alla morte di Peron, il suo patrimonio politico. Sono gli anni che precedono la reazione da parte del sistema. Come si comporta Criterio sotto la dittatura? Prima di tutto, non voglio nascondere che c’è una macchia nella storia della rivista: nel 1930 – non era più direttore Dell’Oro Maini – aderisce al colpo di Stato; è vero che vi aderì quasi tutto il Paese, ma a mio avviso rimane una macchia. Nella dittatura che inizia nel 1976 Criterio si comporta bene. Non era la prima volta che aveva difficoltà; ce n’erano state col peronismo, più volte lungo gli anni Cinquanta. Tra il 1976 e l’83, quando la dittatura finisce, avvengono censure, minacce. Ci fu un editoriale prima del colpo di Stato militare, nel quale si scriveva che c’era proprio quel pericolo e che bisognava impegnarsi per evitarlo; l’editoriale fu molto criticato, ma in effetti abbiamo visto come è andata. Pur riconoscendo che c’era stata molta violenza anche da parte dei gruppi della sinistra, sotto la dittatura ha sempre condannato la violenza di Stato e chiesto il rispetto dello Stato di diritto. Come sono visti i movimenti ecclesiali da Criterio? Tra noi ci sono persone vicine a Schoenstadt, o ai Focolari, a Cl; altri invece sono contrari. Anche da questo punto di vista esiste tra noi una pluralità. E a volte è complicata da gestire, perché è difficile fare degli editoriali con tante presenze diverse, è la nostra debolezza; ma anche la nostra forza; quando essi arrivano al lettore, credo gli diano davvero qualche cosa. Nell’ambito ecclesiale, per noi le urgenze sono: il posto dei laici nella vita della Chiesa; sono ancora visti in modo molto clericale, quasi non avessero pieno diritto. Una caratteristica del laico è che si fa valere per i propri meriti all’interno di ciascuna disciplina; nel mondo della cultura i laici che contano sono quelli che vi hanno realizzato qualcosa, non quelli che ripetono quel che dicono i vescovi. Un’altra priorità per noi è data dall’insieme dei dialoghi; Criterio vuole aiutare quello intra-ecclesiale, da tanto tempo lavora con quello ecumenico: vi scrivono diversi vescovi e pastori protestanti; il dialogo con gli ebrei lo abbiamo sempre coltivato; nel nostro Paese è fondamentale il dialogo con i non credenti che, da noi invitati, scrivono sulla rivista. Ma insomma, chi siete? La sinistra più dura dice che noi siamo troppo liberali; i liberali sostengono che noi lasciamo troppa partecipazione allo Stato nel sociale; la Chiesa dice che siamo troppo aperti e che qualche volta rischiamo di perdere l’identità cattolica; gli agnostici sostengono che siamo troppo religiosi. Insomma, siete la rivista che non va bene a nessuno ma che non si può evitare di leggere, rischiando di trovare firme come quella di Bruno Forte, di Mary Ann Glendon, di Piero Coda, di Jean-Yves Calvez. E i lettori chi sono? Gli abbonati sono tremilacinquecento; in più, c’è la vendita in libreria. Non è molto diffusa tra il clero; dai sacerdoti ci sentiamo spesso dire che non hanno tempo o che la rivista è troppo difficile, e questo, a mio avviso, non è un buon indicatore, perché il sacerdote dovrebbe essere un intellettuale o almeno essergli vicino; metà dei vescovi argentini, invece, sono abbonati; è molto letta da politici e da professionisti; in testa ci sono gli ingegneri e gli avvocati, seguiti dai docenti universitari; è tenuta in notevole conto nel mondo protestante ed ebraico. Ma l’influenza di una rivista si misura in molti modi. Nel 2005, ad esempio, il quotidiano più importante di Buenos Aires, La Nacion, ha riferito dieci nostri editoriali su dodici.

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