Un Cristo contadino a San Miniato
Una lunga passerella rettangolare domina la piazza di San Miniato davanti al Duomo. Un gruppo di spettatori siede al centro di essa e altri sulle due gradinate speculari. Su quelle tavole di legno e dentro la buca della pedana si muovono gli attori creando una vicinanza che contribuisce ad una partecipazione emotiva che diventa esperienza vitale, catartica. Il dolore della Passione di Cristo e il dolore contemporaneo convivono. La sua vicenda è vista e raccontata attraverso tre comici che, inizialmente, da un teatrino con un sipario bianco, si esibiscono in un numero di avanspettacolo. Il rombo di aerei e il suono di bombardamenti che pongono fine all’allegrezza, ci immettono nell’Italia della guerra e del primo Dopoguerra.
Quello che va in scena nello splendido scenario della cittadina toscana per l’annuale appuntamento, il 69°, della Festa del Teatro dell’Istituto Dramma Popolare, è Passio Hominis, un testo medievale, scritto nel 1577 dalla monaca teatina Maria Jacoba Fioria, appassionata amanuense. Quelle parole arcaiche, materiche, riproposte oggi dal regista Antonio Calenda, che attualizza la rappresentazione in un mondo rurale agricolo pastorale del Dopoguerra, hanno una risonanza potente, universale, per ogni tempo: “il percorso verso il sacrificio dell’uomo comune che oggi come allora – spiega il regista – immola se stesso sull’altare di un ideale di Caritas, un uomo che nell’amore per l’altro da sé vede la propria grande, eterna, quotidiana rivoluzione”. In un’atmosfera dolente, di lotta fratricida, ad essere raffigurato è il sacrificio esemplare di Cristo, le sue ultime ore. Egli ha le fattezze di un contadino condannato da tre farisei vestiti di scuro con impermeabili che ricordano i fascisti, mentre Giuda, anch’egli di nero, come un mafioso tesse con loro il tradimento. Maria, una donna semplice, contadina, avvolta in uno scialle nero, è la madre sofferente, testimone e ancestrale custode del mistero del dolore dell’uomo. La sua prima apparizione è seduta davanti ad una macchina da cucire. Da qui inizia il suo cammino di sofferenza, di compartecipazione al calvario del figlio che morirà legato ad una sedia con una sventagliata di mitra mentre sulla facciata di un palazzo una grande croce si illuminerà. Riuniti tutti attorno al suo corpo mentre Maria pronuncia un toccante commiato e Pietro spezza il pane, nel silenzio s’ode il vagito di un bambino, segno di una nuova rinascita. Una composizione pittorica che suggella l’ultima parola sulla vita e sulla storia degli uomini.
La messinscena avvince da subito, tiene col fiato sospeso, e ha momenti in cui vengono scolpiti visivamente alcuni passaggi evangelici: come quello dell’ultima cena, in cui Cristo offre del pane e del vino a un povero saltimbanco mentre pronuncia che quello è il suo corpo e il suo sangue; o l’apparizione di un sorridente angelo dalle ampie ali bianche nell’orto degli ulivi che, cantando, dialoga con Cristo annunciandogli la volontà del Padre dell’amaro calice da bere e della resurrezione che seguirà. E Cristo che risponde raccomandandogli di ringraziare il Padre che egli ama tanto. Calenda dirige un gruppo di dodici encomiabili attori, e due musicisti, calati nei personaggi con una immedesimazione che tocca le corde del cuore. Specie la madre pietosa e dolente di Lina Sastri, dagli occhi inumiditi mentre canta il suo amore e il suo abbandono; il Christo combattivo di Jacopo Venturiero, straziato tra la sua umanità e la coscienza della propria missione; il Joanni vibrante e puro del giovanissimo Antongiulio Calenda al suo debutto teatrale.
Con Lina Sastri, Francesco Benedetto, Rosa Ferraiolo, Jacopo Venturiero, Jaqueline Bulnes, Antongiulio Calenda, Alessandro Di Murro, Stefano Galante, Marco Grossi, Daniele Parisi, Luciano Pasini, Noemi Smorra, Stefano Vona; musica dal vivo Fabio Ceccarelli e Tiziano Tetro, musiche Germano Mazzocchetti, luci Nino Napoletano, scene e costumi Bruno Bonincontri. Prima nazionale per il Teatro del Cielo di San Miniato della Fondazione Istituto Dramma Popolare.