Un “corto” solidale

Il nome, ammettiamolo, non gli rende giustizia: il corto. Per chi sogna il cinema, si parte però spesso da lì, da un mini-film di qualche minuto, girato in economia, biglietto da visita per il grande salto al lungometraggio. Un film-nano non sempre è un nano di film. Anche la saggezza popolare lo va ripetendo da secoli: nella botte piccola c’è spesso vino buono. E il vino contenuto nel cortometraggio Non è solo un quiz è di quelli deliziosi. Non poteva essere altrimenti, visto che è stato prodotto nel Salento, terra di vitigni eccellenti ma soprattutto di valori antichi, di gente laboriosa, fucina di talenti artistici come Edoardo Winspeare, tra i cineasti più apprezzati dell’ultima generazione. Il cortometraggio in questione ci porta in una scuola media statale di Campi Salentina, estrema provincia italiana. Se l’Italia è uno stivale e la Puglia è il suo tacco, qui siamo vicini alla suola, lontani anni luce dalle parate ufficiali all’Altare della Patria per l’inizio dell’anno scolastico. Ma quando c’è la forte convinzione di portare aria nuova nelle aule, non c’è discorso sui “mezzi che mancano” che tenga. La periferia diventa centro, offre un modello che merita d’essere imitato. “Abbiamo pensato di realizzare un cortometraggio in cui i ragazzi potessero rappresentare la loro esperienza scolastica – racconta Gianfranca Papadia professoressa trasformatasi in produttore esecutivo nei giorni delle riprese -. Molti di noi hanno aderito con entusiasmo al progetto presentato da alcune insegnanti della nostra scuola. Il messaggio che si è voluto comunicare, è stato quello dell’integrazione e della valorizzazione delle qualità presenti in ogni persona”. A far da guida il pensiero della scrittrice Marguerite Yourcenar: “Il nostro errore più grande è quello di cercare negli altri le qualità che non hanno, dimenticando di esaltare quelle qualità che invece realmente possiedono”. Nei dieci minuti del film viene raccontato con linguaggio cinematografico moderno il gioco a quiz che si tiene a fine anno. Due squadre si fronteggiano dando saggio della preparazione fin lì raggiunta. Una battaglia tra i “bravi” della classe, dove i meno preparati sembrano fare da semplice scenografia. Fino alla sorpresa finale, all’ultima domanda. Chi indovina vince. Una sorta di golden goal che chiama in causa le conoscenze di “cultura locale”. L’alunno considerato più problematico, tenuto in disparte fino ad allora, fra l’incredulità dei suoi compagni è l’unico a conoscere il significato della parola dialettale ruddra. “Deriva dal latino areola – spiega la Papaia – e va tradotta come aiuola, semenzaio, luogo protetto dove far germogliare le sementi. Così la ruddra è divenuta la metafora della scuola, anch’essa luogo protetto dove far crescere le nuove generazioni con la linfa del sapere e della conoscenza”. Accogliere e valorizzare gli altri. Il messaggio positivo dà valore al cortometraggio della scuola di Campi Salentina. Ma ancor più preziosa è l’esperienza vissuta da chi ha lavorato al progetto. Attorno a Non è solo un quiz si sono ritrovati bam- bini e insegnanti, studenti universitari e semplici appassionati distanti per età e preparazione ma legati da uno stesso ideale: contribuire alla fratellanza universale. Claudio D’Attis, laureando in scienze della comunicazione e promettente regista di racconti audiovisivi brevi, era l’unico ad avere un’idea di cosa serva per realizzare un film. “Un giorno – ricorda Vincenzo Cuomo, biologo, addetto al backstage e direttore di produzione – Claudio è arrivato a un incontro di giovani dei Focolari con alcuni fogli in mano, ed ha accennato che gli avevano proposto di girare un cortometraggio. Fin qui tutto bene, perché sapevo che lui non era nuovo a questo tipo di esperienza. La novità l’ha esposta subito: voleva noi al suo fianco. Sapeva che non eravamo molto pratici del mestiere, ma si è fidato “. Claudio ha messo insieme una bizzarra troupe completa di truccatori, costumisti e fonici, convinto che per portare a buon fine l’ambizioso progetto la preparazione tecnica non sarebbe stata tutto. “Desideravo più che mai lavorare sul gruppo e sul metodo, insomma sull’unità del gruppo – dice Claudio -, lavorare scavando insieme nelle ricchezze e nei talenti di ciascuno. Insomma, una regia ed un’ispirazione diffusa frutto dell’ascolto reciproco”. Impresa non facile: settantabambini, quattro docenti e una troupe di otto persone per quattro pomeriggi di riprese. “Tecnicamente – ricorda ancora Claudio -, notavo come la tecnologia utilizzata abbia dato il massimo: gli strumenti (una telecamera digitale, un computer e una scheda video, luci e microfoni) hanno reso oltre le loro potenzialità. Alla fine della giornata capitava di confidarci i sentimenti più profondi: il corto ci ha dato la possibilità di scavare nello spirito collettivo e cogliere i frutti di questo modo di lavorare. Anche i momenti di tensione si superavano con poche difficoltà. L’ultimo giorno è stato un po’ più difficile: dovevamo riprendere i primi piani ma ormai molti avevano cambiato pettinatura o maglietta. Un paio di telefonate e un po’ di attesa ci hanno fatto ricominciare”. I riscontri e le soddisfazioni non sono mancate: il film è risultato l’opera migliore per il progetto ministeriale “Scuola e solidarietà” che vedeva coinvolte le scuole delle province di Lecce, Brindisi e Taranto. “Ci siamo divertiti, alle volte anche scoraggiati e tanto tanto stancati – racconta Sara Mellone, che ha curato il casting, ovvero la scelta dei giovani attori -; ma ogni cosa l’abbiamo sempre vista e decisa insieme. Quando il secondo giorno abbiamo montato la scenografia per le riprese dell’interno, sembravamo davvero tutti mossi da una “mano invisibile”. A un certo punto, infatti, ci siamo accorti che i ragazzi erano spariti, non c’era più chiasso e confusione attorno alle scale, vicino ai martelli, alle tende” Siamo andati a spiare e abbiamo trovato in una classe uno di noi che alla lavagna spiegava la struttura delle diverse scene, in una seconda aula c’era chi giocava con loro, in un’altra ancora c’era chi insegnava il balletto alle ragazze. E regnava una tale armonia che non poteva essere soltanto opera nostra”. “Forse non è un’opera di chissà quale valore artistico o tecnico – conclude Claudio D’Attis -, ma solo Dio sa quanta arte ci ha messo ognuno di noi”.

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