Un consulente per l’Africa
Intervista a Davide Caocci, consulente di successo nel campo della cooperazione allo sviluppo
Quando si dice fare una pazzia. Davide Caocci, consulente di successo nel campo della cooperazione allo sviluppo, con cachet proporzionati ai progetti multimilionari di cui si occupava, due anni fa ha chiuso il suo studio per dedicarsi a tempo pieno alla fondazione Cumse. Nata nel 2001 come associazione di volontari, ha all’attivo, tra le altre cose, un ospedale in Congo, uno in Camerun e un progetto di telemedicina in Ciad, che consente di fare diagnosi anche a distanza se non è disponibile uno specialista in loco. Ci facciamo raccontare la sua storia.
Come è arrivato ad una decisione così drastica?
«Mi ero appena occupato di un progetto molto sostanzioso, ma che era stato gestito in modo tale da lasciarmi, oserei dire, scandalizzato. Così ho iniziato a pormi delle serie domande sul lavoro che stavo facendo e a pensare se le mie competenze non potessero essere applicate in modo migliore alla cooperazione allo sviluppo».
I colleghi come hanno reagito?
«Ho trovato sostegno e approvazione a parole, ma nessuno di loro ha davvero messo in discussione a sua volta il proprio lavoro. Alcuni avevano un atteggiamento del tipo “e non dire che non te l’avevo detto”. A distanza di due anni, mi chiamano per sapere come va: posso dirmi sereno, non mi manca nulla».
Molto spesso, il problema delle associazioni e fondazioni basate su volontari è appunto quello che mancano le necessarie competenze: come affrontarlo?
«In effetti, questo è un limite tipicamente italiano del terzo settore: il professionista è indissolubilmente legato al profit, a differenza di altri Paesi. Il no profit deve investire nella professionalità, se vuole diventare qualcosa che non sia semplice beneficenza».
Come opera la vostra fondazione?
«Lavoriamo su progetti di sostegno a distanza dando i soldi non direttamente alle famiglie di bambini e ragazzi, ma a degli intermediari: ad esempio, con appena 5mila euro l’anno sosteniamo 50 bambini in un collegio gestito da religiosi in Camerun. Inoltre, ci teniamo a che i locali siano corresponsabili dei progetti che avviamo: la raccolta fondi per gli ospedali tramite opere d’arte, ad esempio, o la gestione dei pozzi. Un giorno, devono essere loro a prenderli in mano: il vero successo, per noi, sarebbe perdere il lavoro».