Un nuovo confronto sul lavoro

Dalle vertenze simbolo del Paese alle nuove regole del decreto Dignità
Un momento della manifestazione indetta dai sindacati dopo la presentazione del piano industriale dei nuovi proprietari dell`Ilva che prevedono 600 esuberi nel sito qenovese e migliaia nel resto del gruppp. 9 ottobre a 2017 a Genova. ANSA/LUCA ZENNARO

La scelta di accorpare due ministeri, Lavoro e Sviluppo economico, nel nuovo governo M5S Lega rappresenta, di per sé, una linea strategica affidata al giovane ministro Luigi Di Maio, cresciuto nella città operaia di Pomigliano d’Arco, Napoli, dove la prospettiva di un’industria di Stato dell’auto ha dovuto cedere il passo alla concorrente Fiat. L’originario centro agricolo partenopeo ha visto anche l’espandersi del comparto aeronautico, passato da Fiat e Fimneccanica al controllo del fondo Usa Carlyle, e subito dopo al fondo inglese Cinven, per arrivare alla statunitense General Electric. Insomma, se si vuole affrontare la questione dell’occupazione, bisogna tener presente il peso dei grandi soggetti economici nel contesto geopolitico internazionale e il ruolo dello Stato. Se questo, cioè, deve limitarsi solo a creare le migliori condizioni per attrarre capitali da investire nel Paese, o, al contrario, debba agire per agevolare la crescita di alcuni settori decisivi, fino ad intervenire, in qualche modo, direttamente nell’ottica dell’interesse generale. Tutti i numerosi dossier di crisi aziendali presenti sul tavolo del ministero dello Sviluppo economico rappresentano dei casi originali da sbrogliare. La vicenda più nota è quella dell’Ilva di Taranto, il maggior stabilimento siderurgico d’Europa costruito dalla mano pubblica negli anni ’60 sradicando migliaia di alberi d’ulivo per impiantare un polo industriale come leva necessaria per dare lavoro e sviluppo al Meridione. La vicenda dell’ex Italsider è passata attraverso la privatizzazione del 1995 con la cessione al gruppo della famiglia Riva, messa poi in stato d’accusa per disastro ambientale nel 2012, con la proprietà commissariata e i profitti blindati in casseforti estere difficili da intaccare. La città è stata messa davanti a un dilemma inaccettabile tra il mantenimento del lavoro e la tutela della vita, esposta a tassi di inquinamento insostenibili. Due società indiane hanno guidato le offerte per acquisire il sito produttivo impegnandosi a salvare parte degli occupati e dare attuazione agli impegni, sempre più procrastinati, delle prescrizioni ambientali. La gara è stata vinta dall’Arcelor Mittal, ma è contestata dal presidente della Regione Michele Emiliano e mette in agitazione i sindacati che non accettano l’assunzione di soli 10 mila dipendenti sui 14 mila attuali. L’altra ipotesi vede in campo il gruppo Jindal, alleato anche con Cassa Depositi e Prestiti, i cui strumenti operativi permettono a un soggetto controllato dallo Stato di investire la massa miliardaria dei depositi postali degli italiani. Il mandato degli elettori pentastellati, oltre il 50% in città, ricalca, invece, le istanze delle associazioni ambientaliste, che chiedono la chiusura e la conversione ecologica della fabbrica.

Il ruolo dello Stato

La novità che si coglie nei primi passi del nuovo governo è l’uso esplicito dell’ipotesi nazionalizzazione di alcune imprese chiave della nostra economia. La società Atlantia dei Benetton non è in crisi, anzi. Ma il disastro ferragostano del ponte Morandi a Genova ha fatto emergere tutti i dubbi di un’altra privatizzazione, quella della società Autostrade, avvenuta nel 1999, fino a ipotizzare la revoca della concessione della gestione al gruppo della famiglia veneta che ha iniziato a far profitti partendo dalla filiera del tessile. Tra l’altro anche la più grande azienda agricola italiana, la Maccarese di Fiumicino, è di loro proprietà dopo cessione dalla pubblica Iri, mentre è nota la contesa tra i Benetton e gli indios Mapuche su migliaia di ettari nella Terra del fuoco in Argentina. La Telecom rappresenta, infine, l’esempio più discusso di errata privatizzazione. Una vicenda complessa che racchiude le lotte di potere in essere in Italia e che ci consegna, da ultimo, l’esodo incentivato di 4.500 dipendenti, prima minacciati di licenziamento, mentre nel 2017 è stata pagata una buona uscita di 25 milioni di euro a Flavio Cattaneo, amministratore delegato del gruppo, durato in carica poco più di un anno per scontri interni alla proprietà. In tutte queste vicende il potere dei lavoratori, anche in ambiti una volta invidiabili, è molto lieve. Lo è anche nei casi positivi, quando la loro professionalità scongiura i licenziamenti, come è avvenuto all’Embraco di Torino per interessamento di un gruppo sinoisraeliano e all’Ideal Standard di Roccasecca, nel Lazio, dove una nuova azienda convertirà la produzione di ceramica in strumenti di pavimentazione ecologica.

Oltre il Job act?

La precarietà, come invitava a riconoscere già nel 1999 il sociologo Richard Sennet, destruttura intimamente la vita delle persone anche se i capi usano toni amichevoli, affermando: «Siamo tutti dei contratti a tempo». Il ruolo della legge dovrebbe essere quello di porre rimedio a una disparità di forze. Con molto senso pratico l’ex ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, ha introdotto una piccola novità, e cioè la possibilità per l’azienda di stipulare contratti a termine rinnovabili fino a 5 volte nel corso di 3 anni, senza dover far riferimento a motivazioni previste nei contratti collettivi. Da esperto del mondo delle cooperative, Poletti conosce la necessità delle aziende di provare per un tempo prolungato un lavoratore prima di assumerlo in pianta stabile, anche nella versione del nuovo contratto a tutele crescenti che rende più facile licenziare, tranne in casi discriminatori, con un indennizzo monetario prestabilito. Con il Decreto dignità, approvato a inizio agosto, si riduce a un anno tale possibilità di fare contratti a termine senza causale, mentre ogni proroga, massimo 4, fino a 2 anni, comporta un leggero aumento dei contributi. Inoltre, il decreto aumenta del 50% l’indennizzo monetario in caso di licenziamenti illegittimi. Nell’assise di febbraio a Verona, Confindustria aveva messo le mani avanti, prima delle elezioni, chiedendo ai vincitori di non toccare la legge sul lavoro del governo Renzi (Job act) per poter investire 250 miliardi di euro in 5 anni. Molti si chiedono come faccia la Lega a permettere che si metta un dito nell’occhio al mondo delle imprese che invece dovrebbe rappresentare. Eppure, si tratta di piccoli interventi che non mettono in pericolo l’impianto della riforma dei contratti già richiesta dalla Bce, nella lettera indirizzata da Trichet e Draghi all’esecutivo Berlusconi il 5 agosto 2011. Anche la nuova norma che penalizza le imprese che delocalizzano, prevede un limite di tempo di soli 5 anni dall’ottenimento dell’aiuto di Stato, colpendo le attività brutalmente predatorie e non quelle più raffinate dei grandi gruppi. È assai significativo, poi, il fatto che sia scomparsa dal testo finale l’abrogazione dello staff leasing che permette di avere un gruppo di lavoratori pagati da un’azienda per lavorare alle direttive di una diversa società. Emblema, cioè, della flessibilità che fa lavorare insieme persone destinate a non diventare mai colleghi. Colpisce, infine, il fuoco di sbarramento eretto dalle imprese della grande distribuzione al tentativo di porre un leggero freno all’indiscriminata apertura domenicale dei negozi introdotta dal governo Monti nel 2011. Esistono, quindi, segnali dal nuovo esecutivo che mischiano le carte nel tradizionale gioco sulle politiche di destra e sinistra. Può essere l’occasione per coloro che hanno a cuore la dignità umana, evocata da questo decreto, a confrontarsi seriamente sui contenuti che la rendono effettiva.

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